Nel corso degli ultimi vent’anni solo lo Zimbabwe di Robert Mugabe e la derelitta Haiti, alle prese con epidemie e terremoti, hanno registrato una crescita della produttività inferiore a quella italiana. È probabilmente questa la causa principale dei molti acciacchi del Bel Paese, che ogni giorno, come nel fastidioso reumatismo, trova nuovi modi per manifestarsi: la crisi delle banche, che probabilmente comporterà un aggravio sui conti pubblici di una quindicina di miliardi; l’attacco a Mediaset, uno dei pochi centri di potere economico autonomi di casa nostra, senza che si sviluppi una reazione, al di là della scudo della magistratura milanese (per ironia della sorte chiamata a difendere Silvio Berlusconi) o della politica: mancano i player finanziari, anche perché, con l’eccezione di Banca Intesa, i pochi centri di potere dipendono da Vincent Bolloré; l’affollarsi di dossier per ora dimenticati (Ilva, ad esempio), ma che presto tornerà d occupare le prime pagine dei giornali.
Di fronte a questo malessere che arriva da lontano, l’Italia ha finora individuato alcune cause, vere o presunte del malessere. Si è attribuita un’importanza esagerata alla riforma costituzionale, non c’è occasione in cui non si evochi la corruzione o l’evasione fiscale tralasciando di parlare dei problemi più profondi, dai mancati investimenti nella ricerca, nell’innovazione o nella formazione, cioè il terreno di coltura della crescita della produttività, il requisito essenziale per garantire un futuro degno della sua storia all’albergo Italia. In assenza di un cambio di rotta, il futuro è già scritto: le non poche cose che (per nostra fortuna) ancora funzionano nel nostro Paese finiranno per essere inglobate in sistemi più efficienti. Il fenomeno, anzi, rischia di accelerare nel prossimo futuro grazie al miglioramento generale dell’economia, che arricchisce le imprese, ma non offre vie d’uscita al clima di incertezza che domina famiglie (che investono solo nel fondi di investimento internazionali) e aziende, che in generale aspirano a trovare un buon compratore all’estero.
In questa cornice la battaglia per il controllo di Mediaset rischia di assumere un valore simbolico. Il quadro, dopo giorni movimentati, è di pace apparente: gli acquisti di Vivendi, per ora, si sono fermati dopo che il tycoon francese ha centrato l’obiettivo dichiarato del 20%. Fininvest ha così l’occasione per approntare nuove difese, magari salendo fino al 45%, e di chiudere eventuali falle nelle difese sul piano legale, politico e dei rapporti familiari. Difficile che le cose cambino nei prossimi giorni, almeno a giudicare dalle precedenti imprese di Bolloré (vedi Havas, la stessa Vivendi o la scalata fallita, ma con ricca plusvalenza, a Bouygues). In tutti questi casi Bolloré si presentato come un azionista amico per poi trasformarsi in un implacabile avversario, una volta rafforzatosi nel capitale.
Il finanziere bretone si è sempre rivelato abilissimo nel mobilitare alleati, vedi i fondi di investimento (è già successo un anno fa in Telecom Italia), e nel fiaccare il fronte avversario. In questo modo, partendo da una minuscola base dell’1% del capitale, è riuscito ad assicurarsi la leadership in Vivendi, tappa di passaggio verso il suo sogno: dar vita entro il 2022 (quando il gruppo Bolloré compirà 200 anni) al primo agglomerato europeo nel campo dell’entertainment, dei media e delle telecom, egemone in Francia, Italia e Spagna. Per centrare l’obiettivo, oltre ai solidi legami finanziari in Italia (Mediobanca-Generali) e Francia, “Bollo” può contare sul jolly Telecom Italia, ambito dalla francese Orange.
Gli analisti di Exane, probabilmente sulla base di informazioni dirette, disegnano questa mappa del settore: in cima Bollo, da cui dipenderà il controllo di Vivendi assieme alla Cdc (l’equivalente francese della Cdp) che conferirà il controllo di Orange in cambio di azioni. Sotto ci saranno Telecom Italia, la stessa Orange (magari separate oppure no) e una quota (non è necessaria la maggioranza) di Telefonica assieme alla pay tv Canal Plus, a Mediaset, promossa capofila del ramo tv grazie alla leadership in Italia e in Spagna, ai videogames e ad Havas, multinazionale della pubblicità e della comunicazione.
Andrà così? Difficile dirlo, anche se la strategia del consolidamento è favorita dalle mosse analoghe di Rupert Murdoch (opa di 21st Century Fox su Sky) e dai movimenti in Usa (Viacom, Time Warner, At&t), senza trascurare il cambio di passo tecnologico imposto da Netflix. È assai improbabile che Silvio Berlusconi, vecchio leone, ceda lo scettro. Ma dopo di lui? La scelta stand alone fa acqua, anzi è facile dire che Pier Silvio Berlusconi paga la rottura di precedenti colloqui con Sky. La sensazione è che il gruppo, senz’altro solido e potente, in grado di assicurarsi gli appoggi necessari per l’arrocco, non possa più recitare un ruolo d’attacco in un settore che richiede investimenti enormi (il precedente dei diritti tv della Champions League è esemplare).
Il business ormai richiede grandi dimensioni, ben superiori ai limiti italiani. La diagnosi non può che essere spietata: i Paesi che in questi anni sono cresciuti in maniera considerevole possono crescere per linee esterne. Gli altri, prima o poi, non potranno che essere tributari di altri concorrenti: riforme istituzionali, corruzione, burocrazia ed evasione fiscale c’entrano poco.