Sta per arrivare il redde rationem, temo. E non tanto e non solo per il clima da 1992 in versione 2.0 che l’Italia sta vivendo da qualche settimana – instabilità politica, aziende/banche sotto attacco estero e magistratura di nuovo protagonista -, quanto per il fatto che i conti lasciati da pagare dal governo precedente ora vanno saldati. E a ricordarcelo, senza ovviamente nominare l’Italia, è stato nientemeno che il presidente della Bce, Mario Draghi, il quale parlando ai leader europei riuniti nel vertice a Bruxelles, ha richiamato i Paesi ad alto debito a dare la priorità al consolidamento dei conti. Un appello che, ovviamente, interessa anche l’Italia, visto che il nostro Paese è ancora in pieno confronto con la Commissione Ue sulle misure necessarie a riportarla in linea con gli impegni presi. E, soprattutto, che la stessa Commissione ha fatto capire chiaramente che in primavera toccherà mettere mano alla Legge di stabilità. 



«Sugli eventuali scostamenti credo che la discussione tra il ministro dell’Economia e il commissario Moscovici sia ampiamente acquisita. Non ci sono assolutamente problemi e novità», ha dichiarato il premier, Paolo Gentiloni, rispondendo a Bruxelles a una domanda sull’eventualità di interventi aggiuntivi sulla manovra. Stando quanto riferiscono fonti Ue, Draghi ha detto che nei Paesi dove il debito è elevato, il consolidamento dovrebbe essere l’approccio dominante. E ha ribadito la necessità di continuare a fare riforme strutturali evitando di tornare indietro, anche per rimediare alla mancanza di convergenza tra Paesi dell’eurozona, vista come una fonte di debolezza per l’intero blocco e per i singoli. Draghi ha spiegato che l’Ue chiude l’anno in una situazione migliore dello scorso, ma con rischi strutturali e politici che potrebbero influire sulla ripresa. Sul fronte strutturale si tratta di minacce note, come la Brexit, e più recenti, come un cambiamento delle politiche Usa, ma per Draghi, «se è vero che i mercati sono stati molto più resilienti dell’atteso, appare difficile valutare la prospettiva a medio termine» Poi, la sparata: «In ogni caso, sul medio termine le prospettive sono peggiori per la Gran Bretagna che per i Paesi Ue». E gli asini volano. 

Ecco poi una meravigliosa dichiarazione d’amore verso il concetto stesso di democrazia: «I rischi politici vengono invece dall’insolito numero di elezioni nei diversi Paesi, e da un ambiente dove i tassi d’interesse potrebbero gradualmente salire. In questo ambiente le debolezze di Paesi della zona euro potrebbero diventare visibili, perché c’è mancanza di convergenza nella zona euro e mancanza di rispetto delle regole, oltre al fatto che l’unione monetaria non è ancora completa». Dunque, i problemi potrebbero sorgere a causa di quella scocciature d’epoca chiamate elezioni e dall’aumento dei tassi. Se nel primo caso stiamo facendo del nostro meglio per farci espropriare del tutto il diritto di dire la nostra, ovviamente sotto l’elegante e progressista formula della cessione di sovranità, nel secondo Mario Draghi dovrebbe darci qualche spiegazione. A partire da un fatto verificatosi giovedì pomeriggio, mentre si teneva il Consiglio europeo. 

Per il secondo giorno di fila, infatti, il rendimento del Bund a 2 anni si è letteralmente schiantato al suolo: cosa significa questo? Che l’eurozona guidata da Draghi è un continente non solo totalmente privo di collaterale, ma con un mercato obbligazionario ormai distrutto, esattamente come quello giapponese. Già, perché quando il Bund – come l’altro giorno – arriva a toccare e poi aggiornare i minimi storici, il messaggio che il mercato ci manda è uno solo: la Bce ha toppato in pieno nell’applicare la misura annunciata soltanto una settimana fa dal Board, ovvero provare a fissare il mercato repo europeo espandendo l’universo del collaterale eligibile con l’inclusione di 50 miliardi cash. Con i rendimenti più a lungo termine che continuano a salire a livello globale, ivi compresi quelli tedeschi, la parte breve della curva ci racconta invece una storia differente: quando lo yield del Bund a 2 anni, come ha fatto giovedì, arriva al minimo storico di -0,78% significa che siamo in piena panic bid, ovvero che il mondo intero compra quel bond per cercare di tutelarsi. 

Perché lo fa? Perché è chiaro che c’è qualcosa di strutturalmente rotto nel mercato obbligazionario europeo, talmente rotto da aver reso inutile la mossa disperata decisa la scorsa settimana dalla Bce: sintomo, quest’ultimo, del fatto che nemmeno all’Eurotower stanno capendo cosa succede davvero nel mercato dei bond dell’eurozona. C’è poco, davvero poco di cui stare tranquilli. E non solo per gli scossoni che l’aumento dei tassi della Fed (e l’annuncio di tre altri aumenti nel 2017) ha già inviato all’Asia, ma anche per quanto ci mostra il grafico a fondo pagina: creato da Guy Stear di Societe Generale, ci mostra la comparazione tra l’Epu (Global Economic Policy Uncertainty) e gli spreads sul credito a livello globale. L’Epu nasce dal lavoro di tre accademici americani, Messrs Baker, Bloom e Davis e, come vedete, i due indicatori presi in esame sono andati in picco correlato nel 2008 e nel 2011, ma ora, stranamente, quella correlazione si è rotta. Sale l’Epu, non gli spread sul credito globali. 

Ecco cosa spiega Societe Generale nel suo report: «L’Epu index è ai massimi storici, mentre gli spread sono nel loro livello mediano del periodo che ci riporta indietro al 2008. Il grafico implica che dato il livello corrente di incertezza della politica economica, gli spreads a livello globale dovrebbero essere doppi. E questo dovrebbe far spaventare non poco gli ottimisti». E quale metodologia sottende l’Epu? Si passano allo scanner i principali quotidiani di 12 Paesi (tra cui tutti quelli appartenenti al G-10) alla ricerca di termini chiave. Per gli Stati Uniti, ad esempio, l’indice riflette la frequenza di articoli presenti nei principali 10 quotidiani americani contenenti la tripletta di termini seguente: “economico o economia”, “incerto o incertezza” e più un’altra parola tra “Congresso, deficit, Fed, legislazione, regolamentazione o Casa Bianca”. E quale indicatore di rischio ci suggerisce essere il migliore l’Epu? Il dollaro. 

Bene, oggi tutto il mondo si trova ad affrontare un problema: la capacità e/o il costo per banche e debitori (soprattutto nei mercati emergenti) di continuare a fare roll-over su finanziamenti superiori a 10 triliardi di dollari di debito off-shore denominato in valuta Usa, questo quando il valore del dollaro continuerà a salire e la grandi banche definite Eurodollar come Citi, JP Morgan, Bank of America, Hsbc eccetera saranno meno disposte a offrire dollari a causa di regolamentazione o avversione del rischio. Il tutto aggravato dalle divergenze di politica economica tra Fed e le altre banche centrali, le regolamentazioni più stringenti e la mancanza di una facility per lo swap sul dollaro tra Fed e Banca centrale cinese: è tutto in mano al dollaro. Quindi, alla Fed. 

E la Bce come risponde a questa situazione? Cercando di includere nella platea del collaterale eligibile cash per 50 miliardi, fallendo miseramente. Avete idea di cosa succederebbe se, come pare, il dollaro continuerà a rafforzarsi, spinto anche dalle promesse di ripresa economica e inflattiva dell’amministrazione Trump? Avete idea di dove finiranno gli spreads reali, non quelli calmierati e anestetizzati dai vari Qe? Bene, in questo mondo come arriva l’Italia, in quali condizioni? Devastate. Vi offro solo un paio di indicatori per capire. Stando a dati di Truenumbers, vediamo i versamenti delle imposte nel nostro Paese nei primi 10 mesi dell’anno. Non sembra la fotografia di un Paese in crisi, visto che stando a questi dati, le entrate fiscali sono (quasi) tutte in crescita. 

Vediamo una voce molto importante, il gettito dalle imprese: +9,7%. Tra gennaio e dicembre, il totale delle tasse versate dagli italiani ha raggiunto quota 347.005 miliardi di euro rispetto ai 332.904 miliardi dello stesso periodo dell’anno scorso. In termini percentuali, la crescita è stata del 4,2% pari a 14 miliardi e 101 milioni di euro. Ma quello che colpisce è che non c’è (quasi) nessun tipo di imposta che nei primi 10 mesi dell’anno abbia prodotto meno gettito rispetto allo stesso periodo del 2015: a crescere di più, in termini di versamenti, è stata l’Ires, +9,7%, seguita dall’Iva, +5,5%. Le imposte dirette sono cresciute del 3,7% grazie all’andamento dell’Irpef che cresce di 4.467 milioni di euro (+3,2%) rispetto al 2015. A calare sono solo il gettito proveniente dalle ritenute sugli interessi e altri redditi da capitali e quello proveniente delle imposte sostitutive sui redditi da capitale e sulle plusvalenze, rispettivamente a -1.962 milioni di euro (-19,8%) e -1.156 milioni di euro (-53,7%). 

Cosa significa? Semplice, l’effetto del crollo dei rendimenti di titoli di Stato. E questo sarebbe il lascito del governo che si è vantato ai quattro venti di aver abbassato le tasse? E non ditemi che l’esplosione del gettito è tutta frutto della lotta all’evasione, perché finisco di ridere all’Epifania. Insomma, aziende e cittadini spremuti come limoni: prospettive di ripresa? Zero, tanto più che il combinato di crisi bancaria e instabilità politica non potrà che aggravare la situazione macro. 

C’è poi una seconda voce che ci fa capire il perché Draghi, con tutte le sue colpe poco fa elencate, abbia chiaramente parlato di consolidamento del debito come priorità: giovedì è uscito il consueto Bollettino della Banca d’Italia sul debito e cosa ci dice? Che il debito pubblico negli ultimi dodici mesi di governo Renzi è salito di 44 miliardi di euro al netto della cassa. Ora, due domande: le strabilianti opere per far ripartire l’economia promesse da Gentiloni, a partire dalla disponibilità miliardaria del ministero per il Mezzogiorno, da dove saltano fuori, al netto di un’Europa che è pronta a commissariarci e di un debito alle stelle? Secondo, avete idea di cosa succederebbe al nostro debito se davvero i tassi dovessero salire a livelli quasi normali anche nell’eurozona? 

Certo, Draghi ha prolungato il Qe – abbassando l’ammontare di acquisti, però, proprio per i problemi sul collaterale di cui abbiamo parlato prima – e ha promesso tassi bassi ancora per tutto il 2017, ma l’Epu ci mostra come l’interconnessione della politica economica e monetaria delle Banche centrali sia un demone difficile da combattere, anche partendo dalle migliori intenzioni. Non so se il governo Gentiloni arriverà a fine legislatura, non so se si voterà anticipatamente: so che la primavera sarà da lacrime e sangue per un Paese già ridotto allo stremo come il nostro. Certo, il dato di ieri dell’inflazione nell’eurozona (+0,6% su base annua, -0,1% su base mensile) gioca a favore di Draghi, ma resta il fatto che questi numeri ci dicono come il Qe sia statutariamente un fallimento, visto che in base alle previsioni della Bce avremmo dovuto essere all’1,4%: il prezzo del greggio aiuterà l’inflazione nel 2017? Credeteci, visto che come vi ho anticipato, l’accordo Opec sui tagli alla produzione si è rivelato il solito bluff saudita, non fosse altro perché ieri l’Iraq ha annunciato un aumento dell’export pari al +7% per il prossimo gennaio. 

Abbiamo creato debito e dilapidato ricchezza per una vita, ora tocca pagare il conto.