Nella pubblicistica delle scienze economiche non mancano riferimenti a casi esemplari di performances in tema di politiche economiche e sociali esibite da Paesi che in effetti meritano ammirazione o, al minimo, una seria valutazione, soprattutto dai politici responsabili della gestione della cosa pubblica. Le performances meritevoli di imitazione possono essere riferite a una pluralità di soggetti caratterizzati da “virtù” condivise, oppure a un solo Paese che costituisce il riferimento di tutta una famiglia, che può essere limitata (vedi Europa) o pressoché illimitata (l’Occidente, se non il mondo).
Il primo caso è comparso alla ribalta qualche anno fa sull’Economist sotto la definizione “il prossimo super-modello” e ricomprende i quattro Paesi del Nord Europa – Svezia, Norvegia, Danimarca e Finlandia -, le terre dei Vichinghi. Oggetto di ammirazione è la rapidità, la flessibilità e il pragmatismo dimostrati da tutti e quattro i Paesi nel passare da una condizione – vigente fino agli anni ’90 – di Stati gravati da un settore pubblico estremamente pesante (anche 65% del Pil, come nel caso della Svezia, con imposte superiori al 100% del reddito, come nel caso, venuto alla ribalta mediatica nel 1976, della creatrice di Pippi Calzelunghe…) a una di Stati dispensatori di welfare compatibile con conti in ordine e sufficiente liberismo economico.
Pragmatici e “laici” nelle proprie convinzioni politiche, i “nordici” fanno convivere gestioni private e pubbliche anche nei servizi scolastici e sanitari e ostentano – Svezia in testa – una trasparenza del proprio operato amministrativo e politico che non ha eguali al mondo. In altri termini, essi offrono un menù misto di “thatcherismo” (privatizzazioni e fallimenti tollerati di importanti segmenti della propria industria – vedi Saab e Volvo) e di presenza del settore pubblico che non ha eguali (30% della forza-lavoro, contro un 15% medio dei Paesi Ocse). La principale lezione che si può apprendere dai “nordici”, concludeva l’Economist, non è ideologica ma pratica: lo Stato è popolare non perché è grosso ma perché lavora, e lavora bene, ed è questo che fa pagare volentieri le tasse al contribuente svedese o danese, come non accade in Grecia o in Italia.
Tra tutti i quattro Paesi ultimamente viene però esaltata più degli altri la Danimarca, una piccola economia aperta dotata di uno dei più ampi settori pubblici in tutta l’Ocse e tuttavia caratterizzata da indicatori di performance tra i più alti del mondo, come reddito pro capite e tasso di occupazione (ciò che spiega anche il suo primato mondiale in fatto di autonomia dei giovani rispetto alla convivenza familiare). Un Paese all’avanguardia nell’osservare le regole Ue e che ciò nonostante non ha adottato l’euro, mantenendosi anche fuori dalla cooperazione europea in materia di sistema militare, giudiziario e di ordine pubblico. La domanda-chiave che si pongono gli osservatori esterni è la seguente: “come è possibile riconciliare la performante economia della Danimarca con il suo vasto settore pubblico e le sue alte aliquote fiscali? Viene trascurata qualche variabile in questa semplificazione?”.
Occorre sempre ripartire dalle considerazioni sopra svolte circa le “quattro nordiche”: pragmatismo e non mera ideologia populista (vedi difficoltà a introdurre le nuove 5 Regioni al posto delle vecchie Province), hanno consentito al Paese di sradicare la povertà e ridurre al minimo le disuguaglianze sociali e di reddito. Senza dimenticare – afferma la fonte cui ci stiamo riferendo (Eeag e Cesifo) – i profondi tratti liberali del suo settore privato, che viene favorito nella sua competitività dal livello bassissimo (il quinto più basso nei Paesi Ocse) di regulations che tanto male fanno all’impresa privata, come ben sappiamo in Italia. Sia la Banca Mondiale che il World economic forum collocano la Danimarca ai primi posti al mondo nella graduatoria della “Facilità nel Fare Business”. Questi successi, sottolineano le fonti, sono il risultato di un duro lavoro politico, ovvero di riforme economiche inizialmente dirette solo a superare la crisi e successivamente finalizzate a orizzonti di più ampia portata. Il tutto in un contesto di collaborazione politica (governi di minoranza, governi di coalizione, ecc.) non sempre presente in altri Paesi, meno che mai in Italia.
Si giunge così al terzo caso, quello della “lezione” che un solo, piccolo Paese può impartire a un coacervo di Nazioni tra i più potenti (e supponenti ) del mondo, ovvero l’Eurozona. Il solo piccolo Paese in questo caso è la Svizzera. I suoi 20 Cantoni sono uniti nella Confederazione più o meno come i 28 (d’ora in poi 27) Stati sono incardinati nell’Unione europea. La lezione qui ha che fare con la serietà con cui la Svizzera ha saputo collegare la propria stabilità economica con la durezza della regola “no bailout” in caso di fallimento finanziario di una delle sue cosiddette “unità costituenti”. Questa regola è stata sempre seguita sia nei casi di difficoltà finanziaria in cui incapparono negli anni ’90 i Cantoni di Berna, Solothurn, Appenzell e altri, sia nel caso – esemplare – del Comune di Leukerbad (Canton Vallese), che nel 1998 si dichiarò fallito, sperando nel suo salvataggio da parte del livello cantonale. Né la Federazione nel primo caso, né il Cantone nel secondo, si piegarono alla soluzione del bailout:anche un solo esempio di cedimento, si continua a sottolineare in Svizzera, creerebbe l’aspettativa che in ogni altra circostanza lo si ripeterebbe a prescindere dalla solennità delle promesse e degli impegni. Vero è che il “no bailout”svizzero si è coniugato già dall’anno 2002 con quello Schuldenbremse applicato ai Cantoni e che fu adottato poi, nel 2009, dalla Germania, la quale a sua volta ne ha fatto il perno del Fiscal compact europeo, da lei strenuamente voluto.
La lezione svizzera all’Europa è chiara: una disciplina fiscale vera non è possibile se non accompagnata da una rigida norma “no bailout“, magari inserita in Costituzione e comunque sempre, implicitamente, esistente. I “risanamenti” dei bilanci fruiti nel tempo da molte Regioni italiane (ma anche, nel passato, da alcuni Laender tedeschi) rappresentano forse il massimo che una “maestrina” severa come la Svizzera potrebbe tollerare.