“La verità è una sola: che JpMorgan e Mediobanca, a dispetto del potere della prima e della spocchia della seconda, hanno preso porte in faccia in tutto il mondo. Non un investitore che le abbia ascoltate seriamente quando hanno sondato il mercato per l’aumento di capitale da 5 miliardi su cui s’imperniava il loro piano per Mps”: così scriveva il Sussidiario – che non pretende di essere la Banca mondiale o George Soros! – il 15 settembre scorso. Così la pensava la stragrande maggioranza degli operatori finanziari già in quel momento. Era tutto chiaro a tutti, la pervicacia nel tentare quel piano era soltanto azzardo morale e chissà, forse, conflitto d’interesse con la speculazione che nel frattempo imperversava sul titolo.
Così non la voleva pensare soltanto il governo, troppo trafelato – per il pungolo del suo presidente-rottamatore – a predicare la favola della “salvabilità privata” della decotta banca senese. E dunque in sei mesi la banca ha perso a rotta di collo depositanti e depositi, complicando ulteriormente la sua già compromessa situazione. L’avvento della gestione-Morelli – in sé una brava persona, e forse anche un manager capace – è stato un blitz addirittura insolente nella sua insipienza che il depresso ministro Padoan ha rappresentato ai vecchi vertici del Monte – l’ex presidente Tononi e l’ex amministratore delegato Viola – spiegando imbarazzato di essere solo il portavoce del premier. Il quale – è più che mai il momento di ricordarlo – ancora nel gennaio scorso, undici mesi fa, blaterava: “Mps è risanata, ora investirci è un affare”. Parole totalmente a vanvera, ricordiamocelo ora per allora.
E ancora: la canzoncina secondo cui la vittoria del “no” avrebbe destabilizzato i mercati e reso precaria la Borsa italiana è stata sonoramente smentita dai fatti. Non è per il “no” che Morelli non è riuscito a trovare “l’anchor investor” disposto a investire nel Monte. Se lo Stato, che era già il primo azionista col 4%, e se l’advisor principale JpMorgan – che è anche la più grande banca del mondo ed è un fortissimo investitore – propongono al mercato un investimento che in prima persona non fanno, è il modo migliore per trasmettere un messaggio disguidante: “Fate come dico io, non come faccio io!”. Un disastro su tutta la linea.
Protervia nella protervia: non aver dato autentico ascolto al piano di Corrado Passera, che vedeva nell’Ubs l’anchor investor necessario a far funzionare il salvataggio; non aver subito reso nota l’ispezione della Bce avuta nelle ultime settimane. Scelte pesanti, di cui probabilmente qualcuno dei vertici delle istituzioni finanziarie coinvolte sarà ben chiamato a rendere conto. E ancora: l’intervento dello Stato in Mps veniva scongiurato e deprecato con l’argomenti che avrebbe comportato la mobilitazione della “Trojka” europea e la perdita della sovranità economica dell’Italia: palle, lo si farà, e senza “finire in Trojka”.
Ecco: è tutta una serie di precedenti che vanno ricordati oggi che i “gufi” hanno la loro rivincita. Ma c’è di più: è il momento di ricordare tutto quel che in epoche remote ha determinato l’attuale crisi del Monte. La gestione gradita a Massimo D’Alema, all’epoca segretario del Pd. Quella che condusse all’acquisto – strapagato – della Banca del Salento, con tutti i suoi oltre 2000 dipendenti. O che con Giuseppe Mussari presidente ha dato il placet all’epoca impensabile all’acquisizione di un gruppo di sportelli in più. Quello fatale: che si chiamava Banca popolare Antonveneta. Nove miliardi di costo, il doppio di crediti cattivi.