Cambiano i governi, ma la narrativa europea nei confronti del nostro Paese resta invariata: bocciatura dopo bocciatura, rampogna dopo rampogna. L’ultimo attacco arriva nientemeno che dalla Bce, la quale ha menzionato direttamente l’Italia all’interno del suo bollettino economico di fine anno, citando le analisi condotte dall’esecutivo Ue. La conclusione? «Anche con la flessibilità, l’Italia non rientra nei parametri europei di bilancio». Come dire, forse non è il caso per il nuovo esecutivo di battere troppo sul tasto delle deroghe, visto che non sapete trarne vantaggio e tramutarle in miglioramento dei conti e abbassamento del debito.
Difficile dar loro torto. Il nostro Paese, ha sottolineato l’Eurotower, fa parte degli Stati dell’area euro, insieme a Belgio, Cipro e Slovenia, in cui «il miglioramento del saldo strutturale di bilancio verso l’obiettivo di medio termine disattenderebbe le richieste in misura significativa, superiore cioè a oltre allo 0,5% del Pil. Una valutazione che sarebbe confermata anche qualora ai Paesi in questione fosse concessa ex-post la flessibilità nel quadro del Patto di stabilità e di crescita richiesta dai governi nei rispettivi documenti programmatici di bilancio». Ma non basta. L’Eurotower ha puntualizzato che, «per quanto riguarda Italia e Belgio, i pareri della Commissione implicano che la conformità con il braccio preventivo non si configura più come fattore mitigante nel valutare l’inosservanza della regola del debito». Boom, altra legnata alle speranze di nuova flessibilità in primavera.
Roma, inoltre, è ancora in attesa di sapere come si pronuncerà la Commissione Ue sul programma di bilancio 2017, dato che si era ripromessa di «riconsiderare la propria valutazione dei fattori pertinenti». Una decisione doveva essere presa a novembre, ma è stata rinviata al prossimo anno a causa del referendum costituzionale del 4 dicembre, voto che ha portato a un rimpasto di governo e all’aumento del differenziale Btp/Bund: come dire, un bel regalino, ancorché a Matteo Renzi, l’Europa lo ha già fatto, adesso tocca all’Italia ripagare, ma il prezzo non è ancora noto. E via, poi, con la danza macabra dello spread, quasi un’anticipazione di ciò che ci attenderà entro l’estate, in caso la Legge di stabilità non venga ritoccata a dovere: «L’Italia ha assistito al maggiore aumento degli spread sui titoli di Stato principalmente a causa dell’incertezza politica derivante dal referendum… Una dinamica che non ha coinvolto solo il Bel Paese, visto che i rendimenti delle obbligazioni sovrane decennali sono saliti in tutti i Paesi dell’area, con incrementi compresi tra 40 e 90 punti base, mentre i differenziali di rendimento rispetto al Bund tedesco decennale hanno registrato un ampliamento compreso tra 5 e 50 punti base, ad eccezione della Grecia, dove sono scesi di oltre 200 punti base».
Entrando più nell’ambito generale e guardando all’area euro, la ripresa economica sta proseguendo e la Bce si attende il proseguimento di questo trend a un ritmo moderato ma in via di consolidamento: il terzo trimestre di quest’anno, di fatto, ha visto il Pil salire dello 0,3% in termini reali, mostrando un’evoluzione analoga a quella del secondo trimestre, mentre i dati più recenti hanno messo in evidenza un perdurare dell’andamento positivo anche negli ultimi tre mesi dell’anno. Tuttavia, la crescita economica dell’Eurozona sarebbe frenata dalla lenta attuazione delle riforme strutturali e dagli ulteriori aggiustamenti dei bilanci in diversi settori. Non vi sono ancora, infatti, segnali convincenti di una tendenza al rialzo dell’inflazione di fondo nell’Eurozona, prezzi al consumo che dovrebbero comunque beneficiare del rialzo dei prezzi del petrolio.
Ecco le parole della Bce: «In prospettiva, sulla base delle quotazioni correnti dei contratti future sul petrolio, è probabile di fatto che l’indice dei prezzi aumenti ancora significativamente al volgere dell’anno portandosi oltre l’1%, soprattutto a seguito degli effetti base del tasso di variazione sui dodici mesi dei prezzi dell’energia. Sostenuti dalle misure di politica monetaria, dalla prevista ripresa dell’economia e dalla corrispondente riduzione graduale della capacità produttiva inutilizzata, i tassi di inflazione dovrebbero infine salire ulteriormente nel 2018 e nel 2019». Intanto, i bassi tassi di interesse e gli effetti delle misure non convenzionali adottate dalla Bce continuano a sorreggere la dinamica della moneta e del credito. La crescita dell’aggregato monetario M1 si è mantenuta stabile nel terzo trimestre, nonostante il lieve calo registrato a ottobre, mese in cui l’espansione dei prestiti al settore privato è aumentata. Per la Bce, «le banche hanno trasmesso le favorevoli condizioni di provvista attraverso una riduzione dei tassi attivi e un miglioramento dell’offerta di credito, contribuendo così alla graduale ripresa della dinamica dei prestiti, visto in rafforzamento anche nel terzo trimestre di quest’anno».
La valutazione condotta dalla Banca centrale ha confermato la necessità di estendere il Qe oltre l’orizzonte di marzo 2017, al fine di «preservare il grado molto elevato di accomodamento che è necessario per assicurare una convergenza durevole dei tassi di inflazione verso livelli inferiori ma prossimi al 2%». E, se servirà, si farà altro: «Il Consiglio direttivo seguirà con attenzione l’evoluzione delle prospettive per la stabilità dei prezzi e, se necessario per il conseguimento del suo obiettivo, agirà ricorrendo a tutti gli strumenti disponibili nell’ambito del suo mandato». Ma la Bce può davvero fare dell’altro?
Mentre i mercati festeggiano la cosiddetta Trumpflation recovery, la ripresa garantita dall’inflazione che le politiche economiche annunciate da Donald Trump dovrebbero generare, l’Eurotower sta continuando a comprare badilate di bond su base quotidiana: ma, attenzione, da mercoledì la Bce è entrata in una sorta di hiatus della monetizzazione e per le prossime due settimane l’Italia dovrà fare da sola. Un bel test con la grana Mps piovuta sulla testa del governo Gentiloni, tanto più che le cifre fornite dalla Bce fanno capire quale sia il suo volume di intervento e quale potrebbe essere l’effetto del tapering che comincerà a marzo, quando si scenderà da 80 a 60 miliardi di acquisti al mese. Stando al breakdown di quanto acquistato dalle sei Banche centrali che operano su mandato dell’Eurotower all’interno del Qe nella settimana conclusa il 16 dicembre, l’Eurotower ha acquistato almeno 6 corporate bonds nel suo programma Cspp: a oggi le securities detenute sono 773 e questo significa che già oggi la Bce detiene il 9,2% (50,6 miliardi di euro) dell’intero mercato corporate bond europeo (con un outstanding di 549,34 miliardi di euro).
Nel dettaglio, l’Eurotower ha comprato bond emessi da AB InBev, Autostrade Per L’Italia, Knorr-Bremse, Snam e Uniper: di più, 104 delle 773 securities detenute (pari al 13,5%del totale) hanno rendimento negativo, con le utilities a capitanare la lista degli acquisti con ben 207 securities. In termini di durata delle obbligazioni, nonostante la Bce stia comprando lungo tutta la curva, ha evitato le scadenze più lunghe (superiori ai 12 anni) e si è concentrata soprattutto nel range 3-7 anni, all’interno del quale ha comprato 337 emissioni per un controvalore di 235 miliardi di euro.
Veniamo poi al rating di quegli acquisti e scopriamo che l’Eurotower è stata tutto tranne che riluttante nell’assumersi un rischio di credito, visto che ha comprato un totale di 178 bond con rating BB- o addirittura senza rating: praticamente, un hedge fund. Per quanto riguarda i rendimenti, legati ancora per poco al concetto di capital key che li vincola a uno yield non inferiore al tasso di deposito (-0,40%), la Bce ha già comprato 152 bond con rendimento negativo per un controvalore di 116 miliardi di euro e uno yield medio del -0,13%. Enorme, inoltre, la platea dei soggetti da cui Francoforte acquista obbligazioni, visto che ha comprato 771 bonds da 227 entità di emissione: l’obbligazione con scadenza più lunga che è stata acquistata è quella a 20 anni di Electricité De France, maturazione al 13 ottobre 2036 e rendimento dell’1,875%. Ma al di là delle cifre, di per sé già significative, con la sua azione la Bce ha fornito un sostegno enorme per il credito europeo dal suo annuncio del 16 marzo, tanto che gli spread high grade e high yield nell’eurozona si sono contratti rispettivamente di 36 e 158 punti base, praticamente una manna artificiale.
Gli acquisti corporate sono iniziati l’8 giugno con una media settimanale di 1,8 miliardi di euro e una detenzione corporate totale di 50,6 miliardi di euro, stando al dato fino al 16 dicembre, qualcosa come circa 7,2 miliardi al mese. Ma è il grafico a fondo pagina che fa impressione e deve far riflettere: il bilancio totale della Bce ha visto un aumento di 21 miliardi di euro in assets, portando il totale a 3,631 triliardi di euro, un ammontare pari a circa il 35% dell’intero Pil dell’eurozona. Quanto è sostenibile una dinamica del genere? Ma, soprattutto, visto che gli acquisti della Bce sono l’unica forma di finanziamento a mantenere vivo il ramo corporate europeo, quando inizierà il tapering cosa accadrà a quelle aziende che non potranno più appoggiarsi a emissioni con esito assicurato, ma dovranno andare sul mercato e presso gli istituti di credito per finanziare la loro attività e servire il proprio debito, contratto con il badile sotto l’ombrello fornito dall’Eurotower? Meglio rifletterci.