A volte essere fedele paga. Mentre l’Italia doveva ricorrere allo scudo statale per cercare di salvare il salvabile di Mps, altrove qualcun’altro staccava il dividendo della fedeltà politica in chiave anti-russa. Guarda caso, come vi dicevo tempo fa, Deutsche Bank si è garantita subito prima di Natale un maxi patteggiamento in terra statunitense. Il primo istituto finanziario tedesco ha raggiunto un accordo transattivo con il Dipartimento di Giustizia americano per mettere la parola fine al contenzioso legato al ruolo giocato dalla banca di Francoforte nella crisi dei mutui subprime che, nel 2008, portò a uno dei crac finanziari internazionali più gravi della storia. In particolare, si fa riferimento alle residential mortgage-backed securities emesse e sottoscritte tra il 2005 e il 2007.
L’accordo prevede che Deutsche Bank paghi circa 7,2 miliardi di dollari (6,9 miliardi di euro): nel dettaglio, la sanzione effettiva è equivalente a 3,1 miliardi di dollari, una somma ben inferiore ai 14 miliardi inizialmente chiesti da Washington. A questo si vanno ad aggiungere 4,1 miliardi che la banca corrisponderà sotto forma di sostegno ai consumatori Usa, ovvero tramite modifiche ai finanziamenti o altri tipi di assistenza dedicati ai possessori di casa o mutuatari. Non c’è sicurezza, tuttavia, che questo ponga la parola fine alla vicenda: l’istituto ha infatti sottolineato che non è certo che un’intesa finale tra le parti sia raggiunta sui termini definiti ora, stretta di mano che dovrebbe, a ogni modo, avvenire entro l’inizio del 2017.
Considerando la sanzione così come definita dall’accordo transattivo, Deutsche Bank prevede che la corresponsione dei 3,1 miliardi possa avere un impatto lordo pari a 1,17 miliardi di dollari sui risultati del quarto trimestre dell’esercizio corrente. Al contrario, nessun impatto consistente sull’anno fiscale vigente è previsto per il sostegno ai consumatori: una fonte vicina alla banca ha spiegato all’agenzia Reuters che l’istituto tedesco non progetta un aumento di capitale per coprire la transazione. Insomma, la grana peggiore, quella che poteva davvero azzoppare l’istituto tedesco, è stata superata. Ma Obama ha fatto in modo di lasciare aperta una finestra, ovvero non garantire la chiusura dell’accordo in automatico in base a questi termini: verrebbe quasi da dire che dopo il 20 gennaio, data in cui alla Casa Bianca arriverà Donald Trump, i rapporti con Berlino li gestirà comunque la vecchia amministrazione, quantomeno a livello informale.
E non pensiate che la cosa sia così fuori dal mondo, perché il 23 di dicembre per la prima volta in assoluto, gli Usa si sono astenuti e non hanno esercitato il diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu, facendo così passare una risoluzione che vieta a Israele la costruzione di nuovi insediamenti nei Territori occupati. Non solo Gerusalemme ha reagito malissimo, ma lo stesso Donald Trump, il quale ha immediatamente rivendicato la sua special relationship con lo Stato ebraico, è montato su tutte le furie, dicendo chiaro e tondo che con lui in politica estera la musica cambierà e di parecchio. Io ho una mia chiara sensazione, magari fallace: Obama sta usando questo ultimo periodo a Pennsylvania Avenue per “avvelenare i pozzi” alla presidenza Trump, in primis nei rapporti con la Russia. E anche a livello economico, l’ultimo periodo è stata all’insegna della laissez faire più totale, visto che il livello di indebitamento di società, cittadini e Wall Street non è mai stato così alto.
Prendiamo questo grafico e diamo un’occhiata: i cittadini Usa siedono su un ammontare di debito legato alle carte di credito peggiore di quello della Grande Recessione. La media è di qualcosa come 16.061 dollari, su del 10% rispetto ai 14.546 dollari di dieci anni fa e dei 15.762 dello scorso, stando a dati appena pubblicati dalla Federal Reserve Bank of New York e dello U.S. Census Bureau sul elaborazione della società NerdWallet. A oggi, l’unico dato peggiore relativo al debito legato alla moneta elettronica è quello del 2008, quando si toccarono i 16.912 dollari e gli Usa non toccheranno i livelli di debito precedenti alla crisi prima del 2019, sempre stando a elaborazioni dell’analisi.
Il debito totale (ovvero inclusi mutui immobiliari, per l’acquisto di auto e studenteschi) sorpasserà il livello toccato all’inizio della Grande Recessione nei prossimi giorni, subito prima della fine del 2016 e a pesare maggiormente saranno i mutui immobiliari e quelli contratti per pagare le rette del college. I debiti per mutui legati alla casa sono saliti da 159.020 dollari di media del 2010 e 172.806 dollari quest’anno, mentre il debito legato all’acquisto di automobili è passato da 20.032 dollari di sei anni fa a 28.535 di quest’anno. Infine, a livello nazionale, il debito totale dei cittadini (incluse tutte le voci prima elencate) è oggi pari a 12,4 triliardi di dollari contro gli 11,7 triliardi del 2010.
A cosa bisogna legare questa crescita enorme del debito, visto che la precedente crisi avrebbe dovuto insegnare ai consumatori a rifuggire le cattive abitudini che hanno portato alla creazione e all’esplosione della bolla del credito pre-crisi? Il problema è molto semplice e connaturato alle scelte di politica economica dell’amministrazione Obama: se lo stipendio medio è cresciuto del 28% negli ultimi 13 anni, le spese più quotidiane nello stesso periodo sono aumentate molto di più, a volte a dismisura come ad esempio con il programma sanitario Obamacare, quello che Trump vuole smontare in molte sue parti. Le spese mediche e sanitarie negli ultimi 13 anni sono salite del 57%, mentre anche il costo delle bibite più diffuse è salito del 36%. Insomma, al netto dei dati ufficiali e delle politiche della Fed, l’America sta vivendo oppressa dall’inflazione interna ben oltre i livelli delle proiezioni almeno da sette anni. L’ammontare dei costi delle bollette per una famiglia di quattro persone – padre, madre e due figli – varia nel range tra i 50mila e 100mila dollari, dipende dove si vive, il tutto stando a dati indipendenti del think tank bipartisan Economic Policy Institute. Gli affitti sono saliti del 3,9% soltanto nell’ultimo anno, stando al Bureau of Labor Statistics.
Commentando i dati, Jason McQuay ha così messo in prospettiva la situazione: «L’economia sta migliorando, ma non stiamo vivendo o vedendo il miglioramento che vorremmo per quanto riguarda le dinamiche salariali e dei costo della vita per cittadini e famiglie. Inoltre, noi americani abbiamo un brutto difetto: non facciamo dei budget, troviamo l’idea di preventivare spese per coprire le necessità un qualcosa di sgradevole come fare la dieta». Sarà sgradevole, ma è necessario. E, purtroppo, temo che Donald Trump si troverà a fare i conti con una situazione economica macro molto peggiore di quella che pensa.