A meno di interventi straordinari, basandosi anche sui dati di bilancio, la saga di Alitalia è arrivata all’ennesimo capitolo cruciale. A questo punto credo che occorra un cambiamento di rotta deciso nelle politiche che nell’arco di questi anni hanno relegato l’Italia a mero cameriere di interessi transnazionali, soprattutto perché, a differenza di altre nazioni, da noi non si è investito nella ricerca, nell’istruzione e in politiche innovative atte a far riprendere a uno Stato il suo naturale ruolo di arbitro dell’economia e promotore di un sistema in grado di creare serio sviluppo.
Specie negli ultimi anni si è assistito a fughe di imprese, ridimensionamenti o fallimenti che hanno trovato nel lavoratore l’agnello sacrificale dell’intera questione: l’emorragia di licenziamenti continua e rischia ogni giorno di essere più grave proprio per la mancanza totale di una strategia seria che pare essere sostituita, a livello di politiche, in un “tiriamo a campare” che vede una nomenclatura politica e sindacale capaci di costruire solo tamponi che non risolvono la questione, ma, come dimostrato ampiamente proprio dalla vicenda Alitalia, pospongono le tragedie che poi, come orologi svizzeri, scoccano e si ripresentano nella realtà.
L’unico dato che, credo, ancora possediamo perché insito nel nostro DNA è quello della creatività: proprio a causa dell’immobilismo, siamo riusciti a trasformare (checché ne pensi il ministro Poletti, che pare vivere su Marte per le recenti dichiarazioni sui giovani) questo enorme capitale umano in un prodotto da esportazione verso Paesi felicissimi di aprire le porte a gente preparata che però non riesce ad avere uno sbocco. Ma non mi riferisco solo alle nuove leve: in questi anni siamo pure riusciti nell’impresa di distruggere il capitale dell’esperienza attraverso licenziamenti di una generazione detentrice di un know-how invidiabile, impedendo così l’osmosi generazionale che permetteva di preservarlo. Il tutto in nome del costo del lavoro, fatto passare per la causa dei mali della nostra economia.
In molti ricordano ancora quel 2009 dove la crisi Alitalia fece da battistrada a questo concetto, con 10.000 licenziamenti seguiti a campagne mediatiche che additavano i lavoratori come principali responsabili e che “gasarono” un’opinione pubblica che poi, in molti casi, subì lo stessissimo trattamento nel proprio ambito occupazionale. Tanto per fare un esempio: la manutenzione di Alitalia e i suoi ingegneri sono stati tra i creatori di processi poi copiati da altri vettori quando non da case costruttrici di aeromobili. Ridotta poi ai minimi termini nel corso degli anni, adesso si scopre che il suo costo (dato che si sono appaltati i servizi anche a società estere) è lievitato al punto da costituire una delle voci più deficitarie del bilancio. Il costo del lavoro, già ampiamente competitivo nel fatidico 2009 (16 % dei ricavi contro una media europea del 21%) è ulteriormente diminuito fino a scendere sotto quello di molte low cost. E purtroppo anche le ultime notizie (che ci auguriamo possano essere smentite) ci dicono che siamo alla vigilia degli ennesimi tagli al personale.
Parliamoci chiaro: siamo sicuri che il trasporto aereo significhi per la nostra economia un lusso del quale, in momenti di crisi ormai cronica come l’attuale, possiamo tranquillamente fare a meno?E che facciamo, torniamo a pensare ai transatlantici e lasciamo che questo settore venga gestito da soggetti stranieri o davvero siamo così ingenui da pensare che i vettori d’oltralpe entrino per fare beneficenza? E non per avere il controllo su uno dei traffici più consistenti del Vecchio continente, non foss’altro per le attrattive turistiche del nostro Paese, visto che il settore business ce lo siamo giocati per il crollo dell’economia che da anni ci investe?
La speranza a questo punto è che lo Stato ritorni a fare il suo dovere, quello di promuovere l’economia e di investire non solo passivamente ma anche attraverso strategie che puntino sullo sviluppo, che includano nomine di persone capaci nei vari settori (le abbiamo, ma le regaliamo all’estero) e soprattutto investano nel “capitale umano”, che ancora abbonda ma che purtroppo viene considerato da anni mero “materiale”.
Questa svolta radicale, ma anche perfettamente logica e che ha funzionato e continua a farlo (gli esempi ci sono), rappresenta l’unica possibilità che ci rimane. Perché, parafrasando la storica frase, o “qui si fa l’Italia” con una condivisione seria tra i vari componenti della società puntando al “bene comune” (tanto caro all’attuale Papa ma che un mondo politico, imprenditoriale e sindacale stentano a capire) oppure il declino sarà irreversibile.