Uno dei grandi argomenti per l’anno nuovo, parlando di Borsa, è il flusso di denaro che confluirà negli Stati Uniti a causa della maggiore remunerazione del denaro dovuta all’aumento dei tassi di interesse da parte della Fed, oltretutto in attesa di tre nuovi interventi nel corso del 2017. Ma per capire davvero i meccanismi ed evitare di farsi trovare con la guardia abbassata da “cigni neri” facilmente individuabili, occorre sapere che quando si parla di azionario Usa si parla di Federal Reserve ma in maniera disintermediata rispetto al mercato, ovvero con un certo livello di nuance che spesso di sostanzia nell’avvisare Citadel che è ora di intervenire, quando le condizioni di stress si fanno troppo acute: a quel punto, il mega-hedge fund operante su Etf vede la luce verde, interviene sul mercato come uno special team e manda in modalità reverse le sell-off troppo violente.
C’è però un altro modo di agire, più tradizionale: permettere alle aziende di ricomprare i propri titoli attraverso buybacks garantiti da tassi ancora eccezionalmente bassi. Stando a dati di Goldman Sachs, nel 2016 le aziende hanno rappresentato la percentuale maggiore della fonte di domanda di equities, comprando qualcosa come 450 miliardi di titoli azionari Usa o attraverso buybacks e su operazioni di fusione e acquisizione cash, al netto delle emissioni di titoli. Al di fuori della Grande Recessione, le aziende sono state la fonte primaria di domanda, il balsamo dei mercati azionari.
E ora, al di là dei tassi in risalita, c’è un nuovo, potenziale catalizzatore verso la piazza di Wall Street, ovvero la riforma della legislazione fiscale già annunciata da Donald Trump e che sempre Goldman vede in dirittura di arrivo nella seconda metà del prossimo anno. Sia il neo-presidente che il Partito repubblicano hanno già espresso supporto per un tassa una tantum sui profitti esteri non tassati, un qualcosa che rimpatrierà in direzione Wall Street circa 200 miliardi di dollari sul totale di 1 triliardo detenuto overseas dalle aziende e 150 di questi saranno spesi in buybacks azionari. Quindi, uno dei driver supremi dei corsi rialzisti Usa sembra destinato a mettersi in moto a massima forza, stracarico di cash pronto a essere utilizzato: il tutto, poi, al netto delle emissioni obbligazionarie che, almeno fino a metà del 2017, resteranno comunque una fonte di finanziamento ultra-conveniente. E con un prospettiva di crescita del Pil Usa al 2% e quella degli utili, escluso il settore energetico, del 6%, operare dei buybacks appare la scelta vincente.
Capite da soli che questo non è libero mercato nel senso classico del termine, diciamo che siamo al capitalismo declinato dal barone di Munchausen, ma ormai la Fed è intervenuta troppo strutturalmente nelle dinamiche di mercato per smettere di colpo o rallentare pesantemente: nei fatti, per quanto sia sempre più di moda la vulgata di Wall Street ultra-sana, verrebbe giù tutto, Trump o non Trump.
Attenzione però, ragionando a livello equities globale, all’attore che potrebbe scompaginare le carte, creando un potenziale di rischio che, a mio avviso, in troppi sottovalutano a causa di quell’ubriacatura folle chiamata Qe: il Giappone. A differenze della Fed, infatti, la Bank of Japan si muove sui mercati con la delicatezza e la circospezione di un elefante cieco in una cristalleria da quando il buon Kuroda ha deciso di comprare anche l’aria che si respira: non bastavano più i bond sovrani e corporate, di fatto attraverso l’acquisto di Etf, Reit e altre securities, la Banca centrale del Sol Levante sta bellamente comprando titoli azionari. Ovvero, mantenendo in vita il Nikkei. Ma non solo compra azioni, è la principale fonte di domanda delle stesse. Stando a dati resi noti sul finire della scorsa settimana, il valore degli acquisti di Etf della Bank of Japan quest’anno ha toccato i 4,3 triliardi di yen, circa 36,5 miliardi di dollari, su del 40% rispetto allo scorso anno.
Il grafico a fondo pagina ci mostra come in questo momento la BoJ detenga approssimativamente il 2,5% del market cap dell’intero Topix: avanti di questo passo, in pochi anni la Banca centrale avrà di fatto nazionalizzato l’intero mercato azionario. È un paradosso, ovviamente ma nemmeno troppo, perché c’è un problema, anzi due. Il primo è che se la BoJ compra è perché gli investitori esteri vendono e parecchio, per l’esattezza un controvalore di 3,5 triliardi di yen di equities giapponesi al 16 dicembre scorso: come mai il Nikkei non si schianta? Semplice, perché la Bank of Japan compra e opera in off-set su quelle vendite, di fatto rendendole impercettibili al mercato a livello di quotazioni degli indici. Ma chi opera lo sa e guarda altri indicatori per capire quando si sta per alzare la bandiera rossa sul mercato nipponico: finora le trust banks, comprese quelle legate al Government Pension Investment Fund, hanno diligentemente svolto il loro compito, ma i rischi ci sono. E stanno salendo. Inoltre, la BoJ quest’anno ha comprato più Etf delle trust banks, di fatto diventando fonte primaria di domanda in un mercato totalmente sconnesso dai dati macro e dai prezzi reali degli assets.
Il valore totale delle detenzioni di Etf della Bank of Japan, stando ai prezzi di acquisto, è di circa 11 triliardi di yen, ma i guadagni non realizzati hanno spedito il market value a 14 triliardi di yen, stando a dati della Mitsubishi Ufj Kokusai Asset Management. C’è inoltre un rapporto diretto con gli Usa: se infatti gli investitori stranieri hanno comprato più di un 2 triliardi di yen in controvalore di titoli nipponici da novembre, quando è stato eletto Donald Trump, l’ammontare non opera sufficiente off-setting sulle vendite della prima metà di quest’anno: con il cross dollaro/yen che comincia a calare, qualcuno avanza l’ipotesi che il cosiddetto Trump rally sia nella sua fase finale, quella prima dei realizzi.
La seconda criticità è ontologica rispetto all’operato della BoJ: il suo programma di Qe ha infatti pompato i prezzi azionari ma distorto del tutto la dinamica di formazione dei prezzi dei titoli. Siamo allo scherzo di mercato divenuto legge. Il programma di acquisto Etf, di fatto, obbliga per mandato la BoJ a comprare un ampio range di titoli azionari, questo senza alcun legame ai risultati operativi e di business delle aziende che li emettono. Si compra e basta, ma questo significa che aziende zombie con conti da mani nei capelli sono mantenute artificialmente in vita unicamente grazie all’intervento della Banca centrale, un qualcosa che paradossalmente genera quella deflazione che il programma stesso dovrebbe combattere, visto che queste stesse aziende zombie danno vita a una gara al ribasso a livello globale per svendere ai propri competitor e sperare così di sopravvivere. Risultato? Tassi ancora più bassi e maggior interventismo della Banca centrale, ovvero l’ipotesi keynesiana di helicopter money che prende sempre più piede in questo mercato di pazzi.
E proprio ieri abbiamo avuto un’anteprima di quanto potrebbe nel corso del 2017, poiché abbiamo assistito a un nuovo crollo alla Borsa di Tokyo per il titolo della Toshiba, dopo l’annuncio di martedì circa una possibile svalutazione degli assets di una divisione statunitense per svariati miliardi di dollari. Le azioni ieri hanno perso il 20%, il massimo consentito dalle autorità di Borsa. Dopo aver ceduto il 12% nella giornata di martedì, a mercati chiusi Toshiba aveva annunciato che il valore dell’acquisizione portata a termine dalla controllata Westinghouse Electric, per la realizzazione di un progetto relativo alle centrali nucleari di nuova generazione, deve essere ancora determinato, ma, stando alle stime più attendibili, potrebbe essere ridotto di circa 500 miliardi di yen, l’equivalente di 4,3 miliardi di dollari. Oltre a essere in ritardo, i costi del programma hanno superato eccessivamente le stime preventivate per via dell’incremento dei costi di progettazione delle società di servizi CB&I e Stone & Webster, rilevate da Westinghouse in gennaio.
Per la Scuola austriaca, quella che i keynesiani dicono non esistere, siamo in pieno esempio di mal-investment da tassi troppo bassi: si azzardano investimenti che in condizioni di mercato normale non si farebbero, perché le Banche centrali autorizzano e, anzi, stimolano l’azzardo morale. Bene, pensate a cosa accadrebbe se la crisi per le aziende nipponiche diventasse generale e la BoJ dovesse aumentare gli acquisti e diventare unico motore di domanda. Qualcuno potrebbe essere così pazzo o coraggioso da andare a vedere il bluff. Non ve lo auguro.