“L’indicatore anticipatore dell’attività economica registra una ripresa, delineando una prospettiva positiva del ritmo di crescita dell’economia nei prossimi mesi”. Lo dice l’Istat nella nota sull’andamento dell’economia italiana del mese di dicembre. Per Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, il 2017 non sarà però un anno semplice: ci sono diverse incognite a livello internazionale e il nostro Paese potrebbe dover pagare il prezzo del referendum chiesto dalla Cgil sull’articolo 18.



Professore, che situazione vede per il nuovo anno?

Il 2017 è molto difficile da interpretare a livello dell’intera economia mondiale. I Paesi emergenti continuano ad avere un profilo di sviluppo piuttosto modesto, soprattutto per quanto riguarda i Bric. Negli Stati Uniti ancora non si capisce quale piega prenderà realmente la politica di Trump dall’insediamento in avanti. L’Europa cresce pochissimo e anche la Spagna non potrà continuare a far aumentare il suo Pil grazie al deficit per molto tempo ancora. Lo scenario quindi non favorisce la crescita tramite esportazioni. Diventa allora cruciale la domanda interna, che in Europa sta languendo. È difficile dunque immaginare che ci possano essere dei profili di crescita che vadano oltre l’1-1,5%.



Anche per l’Italia?

Per quanto riguarda il nostro Paese, lo scenario economico dipende molto da quello che può essere il consolidamento del profilo di crescita che ha cominciato a delinearsi nel 2015-2016. Se prendiamo gli ultimi sette trimestri, a spesa pubblica invariata, l’Italia sta crescendo più di Francia e Germania. Tutto ciò rende evidente che l’Europa ha un problema strutturale davanti. E l’Italia, essendo collocata in questa Europa, ha delle carte che sono abbastanza limitate per poter andare più forte di così. 

Quali sono queste carte?

Principalmente possiamo contare sull’industria 4.0, che può rappresentare un elemento che potrebbe darci un profilo di crescita un po’ più alto di quello che ci si può attendere nel 2017. Molto dipenderà anche dall’atteggiamento delle imprese. Se faranno investimenti, approfittando dei piani sull’industria 4.0, forse potremo andare un po’ oltre l’1% di crescita. Altrimenti credo che questo sia fatalmente lo scenario non solo italiano, ma europeo, per il 2017. Tutti pensano che la Germania sia forte perché trainata dall’industria. In realtà, negli ultimi sette trimestri il valore aggiunto della manifattura italiana è cresciuto il doppio di quella tedesca.



Il problema, diceva, è a livello europeo. Cosa può fare Bruxelles per smuovere l’economia?

Se non fa partire qualcosa di più del Piano Juncker l’Ue è destinata a un 2017 non brutto, per carità, ma che certo non risolve i problemi sul tappeto, non crea cioè abbastanza nuova occupazione, non crea investimenti, specie su ricerca e sviluppo. È uno scenario in cui l’Europa traccheggia e va avanti per forza d’inerzia.

Il 2017 non sembra però l’anno ideale perché l’Ue possa avere questo ruolo. Non crede che attenderebbe prima le elezioni in Francia e in Germania?

Purtroppo temo di sì. Questa è un’Europa che non sta prendendo decisioni su niente. Le uniche che si prendono sono quelle abbastanza curiose sulle banche, per cui sembra che i problemi siano solo a Siena e dintorni. È un’Europa che sembra totalmente in congelatore, in attesa di sapere cosa succederà in Francia, in Germania e anche in Italia. Purtroppo una delle conseguenze del referendum costituzionale è che mentre avremmo potuto avere un 2017 con un Governo saldo in sella e anche abbastanza provocatore in Europa, arriviamo invece con un esecutivo che ha un peso politico minore e che forse sarà “di transizione”. Un 2017 con un Governo Renzi ancora in carica avrebbe potuto permetterci di tentare dei colpi di mano in Europa, sia sotto il profilo delle politiche economiche che sull’immigrazione. Ora invece è già tanto se teniamo le posizioni.

 

Se come ha detto prima non si potrà puntare sulle esportazioni, che contributo alla crescita potrà arrivare dai consumi degli italiani?

I consumi sono ripartiti in Italia. Quelli di beni durevoli sono aumentati di più in Italia che in Francia e Germania. E anche quelli di beni semi-durevoli. Ho preparato una tabella (la riportiamo a fondo pagina, ndr) in cui si può notare che anche i nostri investimenti sono cresciuti rispetto a quelli di Francia e Germania. Per non parlare del valore aggiunto di agricoltura e industria manifatturiera. Questo è il portato delle misure che sono state prese. Cosa succederà nel 2017 lo sa il Signore. Dobbiamo solo sperare che il Governo Gentiloni riesca a portare avanti il progetto industria 4.0 e che non ci sia un referendum sull’articolo 18.

 

Cosa c’entra l’eventuale referendum sull’articolo 18?

Forse ci si sta scordando che sono stati creati 600.000 posti di lavoro in due anni dopo una durissima crisi. Potremmo dover votare per ripristinare l’articolo 18 quando la sua abolizione ha consentito di creare occupazione. Per fare un esempio, l’industria farmaceutica ha avuto uno sviluppo poderoso in Italia. Questo perché molte imprese straniere hanno investito nel nostro Paese. Non solo per i centri di ricerca buoni e le politiche industriali messe in campo per attrarre gli investimenti, ma perché con il Jobs Act si possono prendere decisioni produttive senza dipendere da quello che può stabilire un giudice in materia di lavoro. Per mesi e anni non ho fatto altro che incontrare investitori stranieri che non erano intenzionati a investire in Italia se la situazione non fosse cambiata. Bisogna quindi sperare che non ci siano da pagare le conseguenze di una specie di inversione di tendenza nell’atteggiamento verso il nostro Paese.

 

Quindi sta dicendo che rischieremmo di perdere degli investimenti stranieri se passasse il referendum proposto dalla Cgil…

Mi sembra non si riesca a capire cosa si sta cercando di fare per poter intraprendere almeno una strada di moderata crescita. Sappiamo tutti che c’è una parte dell’industria italiana che ha patito sia la globalizzazione che il crollo della domanda interna. Di fatto abbiamo subito una sorta di amputazione della capacità produttiva. Sento dire che solo nel 2022-23 torneremo ai livelli del 2008: per forza, stiamo comparando due realtà diverse! Quella del 2020 sarà un’Italia diversa, composta solo da quelli che sono sopravvissuti. Quella del 2017 credo sia una situazione di transizione in cui dobbiamo sperare di uscire il più possibile indenni da tutte le trappole che sono disseminate lungo il percorso.

 

(Lorenzo Torrisi)