Nel momento in cui scrivo l’incipit di questo articolo, il mio cuore è più leggero: la campagna referendaria è finita. Mentre leggete queste frasi, forse siete già andati a votare secondo coscienza. Ma, almeno, le volgarità e gli attacchi di bassa lega di questi ultimi tre mesi saranno alle nostre spalle, così come la presenza fissa h24 di politici in televisione a parlare sempre dello stesso argomento: bicameralismo paritario, Senato delle regioni, abolizione del Cnel, riduzione dei costi della politica. Non so voi, ma io sono stato colto da nausea già a inizio novembre. Ma, voglio essere sincero come al solito, non fatevi illusioni: ieri è finita la campagna referendaria, ma domani, lunedì, inizia una lunghissima e pericolosissima campagna elettorale. E questo, a prescindere da che vinca il “Sì” o il “No”.
Sono sempre di più gli osservatori e gli analisti, soprattutto internazionali, a sottolineare la levatura prettamente politica del quesito che siamo chiamati a votare, e a condizionare gli esiti del voto alle mosse interne del governo: parliamoci chiaro, la Costituzione è l’ultimo degli aspetti dirimenti e qualificanti di questa tornata referendaria, la quale è unicamente un enorme voto di fiducia popolare su Matteo Renzi e il suo governo. Particolarmente interessante è stata l’analisi presentata l’altro giorno da Credit Suisse, la quale pone all’attenzione degli investitori la rilevanza di un “soft” o di un “hard” No alla riforma, di fatto dando per scontata la bocciatura del quesito. Così, infatti, l’istituto elvetico ha intitolato un report sulle banche italiane in vista dell’esito del referendum, partendo appunto dal presupposto che, sulla base degli ultimi sondaggi, una vittoria del No sia sulla carta. «A nostro avviso, la vittoria di un “no soft” o di un “no hard” potrebbe fare la differenza. La stessa Standard&Poor’s ha recentemente confermato il rating BBB- sull’Italia, affermando che un fallimento del referendum non sarebbe rilevante, a meno che ci sia un deragliamento delle riforme strutturali», si legge nella nota di Credit Suisse.
A detta della quale, però, la vittoria di un “no soft” potrebbe dissipare qualche incertezza: «Riteniamo che le potenziali dimissioni del premier, Matteo Renzi, potrebbero aprire la strada a un rimpasto di governo. Per garantire la continuità, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, potrebbe nominare l’attuale ministro delle Finanze, Pier Carlo Padoan, per formare il nuovo governo, sostenuto da una coalizione allargata in grado di ottenere il voto di fiducia. Questo potrebbe ridurre l’incertezza politica ed essere utile per i prossimi piani di ricapitalizzazione delle banche italiane. In questo caso, ci aspettiamo che questo scenario si concretizzi velocemente», prevedono gli analisti di Credit Suisse.
C’è poi, invece, l’ipotesi della vittoria di un “no hard”, la quale di converso potrebbe aumentare ulteriormente l’incertezza: «A nostro avviso, se non è possibile formare un nuovo governo a causa della mancanza del supporto di una maggioranza, il presidente potrebbe indire elezioni anticipate, ma non prima di aver cambiato la legge elettorale a inizio 2017. Questo potrebbe aprire la strada al rischio di una potenziale vittoria populista anti-Europa del Movimento 5 Stelle. Un’incertezza politica che potrebbe continuare e non essere utile ai piani di ricapitalizzazione delle banche italiane», avvertono gli esperti. Ma la questione di base rimane, perché – a detta degli analisti elvetici – qualunque siano le conseguenze della vittoria del No, l’instabilità politica e l’incertezza non sono utili per i piani di ricapitalizzazione delle banche italiane: «Se le banche non fossero in grado di aumentare il loro capitale, il ruolo e l’approccio delle autorità e dei politici potrebbero essere cruciali», aggiungono gli analisti di Credit Suisse, prevedendo tre opzioni possibili.
La prima è il cosiddetto “approccio flessibile”, con l’Italia che potrebbe far valere l’articolo 32 della Brrd (la normativa europea sulla risoluzione delle crisi bancarie), il quale prevede il diritto al salvataggio delle banche in caso di «grave turbamento dell’economia di uno Stato membro per preservare la stabilità finanziaria». Questo potrebbe portare a una diminuzione del rischio sistemico, «ma pensiamo che la possibilità per l’Italia di far valere l’articolo 32 della Brrd sia improbabile». C’è poi l’approccio parzialmente flessibile, in ossequio al quale le autorità potrebbero consentire il rinvio delle ricapitalizzazioni. In questo caso, gli analisti non prevedono bail-in o salvataggi imminenti. Ci potrebbe essere una potenziale riduzione del rischio sistemico, ma il problema rimarrebbe, quindi non sarebbe necessariamente positivo. Infine, c’è l’approccio rigoroso, in base al quale le autorità potrebbero applicare il bail-in. Questo potrebbe essere lo scenario più probabile, dal momento che sarebbe conforme alle norme vigenti, ma si tratta naturalmente anche dello scenario peggiore, in quanto aumenterebbe il rischio di una corsa agli sportelli, seppur moderata.
In conclusione, gli analisti di Credit Suisse sottolineano che «nonostante la recente sottoperformance relativa, la peggiore delle ipotesi sopra citate, ovvero il bail-in, non è ancora scontata nei prezzi dei titoli delle banche italiane. In più, l’alta volatilità è destinata a continuare nel breve periodo, fino a quando si avrà l’esito del referendum il 5 dicembre e nei giorni successivi dopo il voto, fino a quando le incertezze politiche non saranno dissipate. Detto questo, in caso di una vittoria del “Sì”, i titoli delle banche italiane potrebbero reagire positivamente». Insomma, come vedete nel report di Credit Suisse non vengono nominati nemmeno una volta il bicameralismo paritario, il Cnel, il contenimento dei costi della politica: solo il sistema bancario, il cui destino appare legato in maniera più o meno diretta a quello dell’esecutivo in carica su cui domani siamo, nei fatti, chiamati a pronunciarci. Chi sostiene il contrario, è in malafede, anche se sappiamo tutti che i guai delle nostre banche nascono altrove e più lontano nel tempo.
E attenzione al contesto finanziario in cui va a inserirsi questa scadenza così importante, visto che dopo giorni di euforia, qualcuno inizia a domandarsi se la crescita delle azioni e delle prospettive di inflazione trovi una base solida nel cambio di presidenza Usa. E non si tratta di un qualcuno a caso, ma di Bill Gross, guru degli investimenti sul comparto obbligazionario, il quale ieri ha smontato le prospettive di un lungo periodo di apprezzamento dei mercati azionari. Stando al gestore, gli investitori sono stati portati fuori strada dalle promesse del tycoon, ma i tagli alle tasse promessi, gli investimenti in infrastrutture e le liberalizzazioni porteranno soltanto benefici temporanei.
Il dollaro si è così avviato alla sua prima settimana di calo, stando alla rilevazione del paniere Bloomberg Dollar Spot Index, dalle elezioni dell’8 novembre. Se per caso, poi, la Fed alzasse i tassi a metà mese, i rendimenti potrebbero impazzire. E qualcuno farsi molto male. E non sto parlando di ipotesi di laboratorio, ma di un qualcosa che si è già verificato la scorsa settimana, quando il Bund a 2 anni si è schiantato subito dopo la pubblicazione di un report della Reuters, in base al quale la Bce stava lavorando a un piano che consentisse la reintroduzione sul mercato di una grossa parte del debito governativo che sta comprando per evitare un congelamento del mercato repo da 5,5 triliardi di euro che puntella, di fatto, il sistema finanziario, scenario che ha portato all’aumento dei rendimenti sui Bund a breve scadenza.
L’effetto di quel report durò solo un giorno, poiché – guardandosi negli occhi – tutti si convinsero che anche se la Bce avesse compiuto qualche mossa al riguardo, la carenza di collaterale sul mercato sarebbe rimasta. Giovedì, invece, sempre la Reuters ha lanciato l’allarme, dicendo che «la Bce sta considerando l’ipotesi di mandare un segnale in anticipo rispetto al meeting del marzo 2017 riguardo alla possibilità che il Qe possa eventualmente terminare». Boom, i futures sui Bund si sono schiantati di 30 ticks in 10 minuti. Insomma, la Reuters, solitamente molto ben informata riguardo la Bce, sta dicendo che il tanto temuto tapering starebbe davvero arrivando, anche se la Bce non sa in che modo sostanziarne l’arrivo.
Attenzione, questo non significa che il programma di stimolo terminerà, come da opzione statutaria, nel marzo dell’anno prossimo, ma che proseguirà su cadenze differenti dagli attuali 80 miliardi di acquisti al mese. Le opzione sono infatti già in campo: una parte del board, avversata dalla Bundesbank, vorrebbe proseguire per altri sei mesi dopo marzo mantenendo gli 80 miliardi di acquisti, ma una fetta consistente del direttorio sarebbe pronta ad accettare un compromesso al ribasso, ovvero un’estensione temporale più lunga ma con volumi minori, cioè altri nove mesi ma a 60 miliardi al mese di massima.
Ora toccherà a Draghi, nella riunione di giovedì prossimo, compiere il capolavoro di equilibrismo, ovvero non svelare alcun particolare, ma, al tempo stesso, fugare per un po’ l’idea che il tapering del Qe sia comunque stato discusso, anche se solo in forma di ipotesi allo studio. Sceglierà l’approccio giapponese, ovvero calibrare i volumi di acquisti mensili in base agli sviluppi macro e alle necessità contingenti? Chi lo sa, l’unica certezza è che in un contesto finanziario del genere, il nostro Paese si prepara a una campagna elettorale permanente: chiunque vinca domani, sarà l’Italia ad avere perso. E dovremo ringraziare per questo la bramosia di potere e l’ego ipertrofico di chi ha voluto questa riforma inutile e l’ha caricata di significato quasi millenaristico: i nostri figli, il cui destino viene continuamente legato all’esito del voto, forse andranno a chiedergliene conto, prima o poi. Siamo nel 1992 in versione 2.0, preparatevi.