Questa nota viene scritta mente sono in corso le operazioni di voto per il quesito referendario a cui gli italiani devono rispondere con secco Si o No, quali che siano i singoli aspetti dei complessi temi e problemi posti alla loro valutazione. Molti giornali e web magazine di oggi congetturano su quelle che saranno le conseguenze politiche ed economiche dei due possibili risultati. Dato che chiunque sarà il vincitore il suo primo compito sarà quello di ricompattare il Paese, dopo due anni di mezzo di violenta contrapposizione, poiché senza un Paese compatto e teso verso il raggiungimento di un’Italia più moderna e più giusta si resta a ciurlar nel manico, occorre chiedersi qual è la strada obbligata che chiunque vinca il referendum è costretto a percorre, qualsiasi altro obiettivo di politica economica abbia tra le sue priorità, e promesse referendarie.



Il percorso è, in grande misura, reso necessario dalla posizione dell’Italia nell’economia internazionale. Siamo in Paese di medie dimensioni, che dal 2008 ha perso il 25% della sua capacità produttiva nel manifatturiero, con una percentuale di risorse umane non utilizzate, con alcune eccellenze di alta tecnologia in una palude di imprese a tecnologia bassa o intermedia, con 198.000 leggi che rendono difficile operare e con uno dei debiti in rapporto al Pil più alti dell’eurozona, e con sistema bancario in gravi crisi. Il quadro internazionale presenta segni sempre più forti di rallentamento.



In questo contesto, le previsioni a medio termine non sono incoraggianti. Il gruppo dei venti istituti del consensus (venti centri di analisi previsionale-econometrica, tutti privati e nessuno italiano), prevede per il 2017 (rispetto al 2016) una riduzione di circa mezzo punto percentuale per la crescita del Pil nell’eurozona. Istituti italiani, come Prometeia e il Ref, indicano, nei loro rapporti, che nel 2017 la crescita economica dell’Italia potrebbe essere inferiore a quella della Grecia; nelle graduatorie saremmo gli ultimi nell’eurozona. Per questo motivo, giornali come The Financial Times paventano che l’Italia sarà commissariata da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale al fine di monitorarne le politiche e se indispensabile trovare regole speciali per farla restare nella moneta unica (quali un ritorno, per alcuni Paesi, agli accordi europei sui cambi, colloquialmente chiamati Sme).



In questo scenario prospettico si troverà chiunque e dovrà fare politica economica. Escludendo l’ipotesi apocalittica di crisi di fiducia nell’Italia (che ce la possa fare) e di crisi di mercati, il percorso predeterminato si può riassumere in questi termini:

Consolidamento della finanza pubblica. Ciò vuol dire non solo cancellare “mance elettorali” da una Legge di bilancio che sta ancora espletando il proprio iter parlamentare, ma un rigoroso controllo della spesa sia di parte corrente, sia in conto capitale, applicando le tecniche di valutazione che sino a tre-quattro anni fa veniva insegnate alla Scuola Nazionale d’Amministrazione. Ciò comporta anche una riduzione del rapporto debito/Pil. Come farlo è indicato in numerosi lavori (quale il Rapporto Astrid per il Governo Monti e l’analisi comparata dei differenti metodi fatta dal Cnel). Non solo, in uno degli ultimi fascicoli della Yale Law Review e del Financial Crisis Journal vengono offerte ricette dettagliate sulla base delle più recenti esperienze internazionali. Quindi, il menu non manca; dopo tre anni di inazione, chiunque vinca il referendum, deve passare ai fatti.

– Politica della domanda aggregata. Una vera e propria politica di austerity non c’è mai stata, ma come rivela l’ultimo Rapporto Censis, le famiglie che potevano hanno aumentato risparmi e ridotto i consumi. Quelle a basso reddito sono scivolate verso la povertà. È urgente quella che un tempo si chiamava politica dei prezzi e dei redditi. Se viene soppresso il Cnel e chiusa a doppia mandata la sala verde di palazzo Chigi, si dovrà trovare altra sede per avviare un dialogo sociale con i corpi intermedi della società civile. Non si può eludere il problema.

– Una politica dell’offerta diretta all’innovazione industriale e alla ripresa. La Legge di bilancio prevede somme ingenti di supporto alla imprese a questi fini. Devono essere integrate da un serio scrutinio (trasparente e pubblico) del loro rendimento finanziario ed economico-sociale di ciascun progetto.