Una vittoria del Sì non avrebbe migliorato di un euro i conti di Mps. Avrebbe invece mantenuto valido l’affidavit personale con cui il premier Matteo Renzi e il Ceo di JPMorganChase, Jamie Dimon, avevano concordato un salvagente finanziario da 6 miliardi per il Monte. Difficile ora che quella “soluzione di mercato” – gradita a Bce e compatibile con la nuova normativa Ue sul bail-in – possa fare passi avanti. Ieri era annunciata come la giornata dei passi decisivi e invece il cammino si è arrestato. Tutti gli advisor al capezzale del Monte hanno invece deciso di rinviare l’intervento decisivo.
L’aumento di capitale da 5 miliardi per ora non decolla: nonostante un miliardo sia già stato più che virtualmente raccolto con l’offerta di conversione in azioni delle obbligazioni subordinate. Ne mancano ancora quattro: e a ieri non c’erano evidentemente conferme sull’impegno per almeno un miliardo e fino a due del fondo sovrano de Qatar. Una pre-sottoscrizione che non metterebbe comunque in sicurezza l’operazione, pur garantita da un consorzio numeroso, blasonato ma cauto. È probabile che l’effetto-Renzi non sia alla fine dirimente per il lancio dell’aumento. Continua, fra l’altro, a pesare una cifra che il cda del Monte non si è mai preoccupato di nascondere: le prospettive di perdita 2016 del gruppo, confrontabili con l’entità dell’aumento. Anche la terza ricapitalizzazione di Rocca Salimbeni – dopo le due condotte sotto la presidenza di Alessandro Profumo per complessivi 8 miliardi – non sarebbe altro che un tampone alle voragini mai colmate nei conti di Siena. Ecco perché l’opzione “salvataggio pubblico” sembra diventare di ora in ora più concreta; a dispetto dei divieti formali piosti da inizio 2016 dalla nuova normativa sui dissesti bancari.
Può sembrare un paradosso, anzi è un profilo politico tutt’altro che marginale nella vicenda: le dimissioni traumatiche del premier che stava salvando sul mercato il Monte potrebbero aprire la strada a un salvataggio pubblico che al governo Renzi forse la Ue non avrebbe concesso. Un salvataggio che – per ironia della sorte – potrebbe assecondare i desiderata di Siena e dei vecchi azionisti di riferimento politico del Monte: l’ala old del Pd (toscano e non) coincidente con parte dell'”accozzaglia” che ha ingaggiato e vinto uno scontro all’ultimo sangue consumatosi domenica. Un bail-in ibrido. Meglio: un compromesso tecnico-politico trilaterale fra il (possibile) successore di Renzi, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan; la Commissione Ue e la Bce presieduta da Mario Draghi. Su Mps verrebbe dato spazio allo Stato (che è già azionista) con un’applicazione solo parziale del bail-in. Verrebbero puniti con il cosiddetto burden sharing gli azionisti (i cui titoli hanno un valore quasi azzerato) e gli obbligazionisti subordinati. Verrebbero invece totalmente garantiti gli obbligazionisti retail e, quel che conta di più, i depositanti.
Il Tesoro, del resto, si ritroverebbe a controllare il Monte non diversamehnte da come lo Stato tedesco detiene da 7 anni il 25% di Commerzbank o quello britannico la maggioranza assoluta di Royal Bank of Scotland. Sullo sfondo resta (almeno per ora) l’opzione più elegante – apparentemente non di pronto utilizzo, ma non solo teorica – riformulata ieri da Lucrezia Reichlin: il mini-commissariamento europeo del Monte (e di altre banche in difficoltà) con la trasformazione di Atlante in bad bank di sistema e l’intervento di un fondo di ricapitalizzazione finanziato da investitori pubblici e privati.