Ha vinto il “No”, Matteo Renzi si è dimesso e il mondo non è crollato. Ora, però, come scrivevo nel mio ultimo articolo, si apre la più lunga e pericolosa campagna elettorale che questo Paese abbia mai vissuto. Non riesco ancora a interpretare il discorso di addio del premier: sembrava sinceramente commosso e dispiaciuto del fallimento che ha imputato unicamente a se stesso, ma, per quanto non ne abbia mai sopportato l’arroganza, non si può dire che Renzi pecchi di intelligenza e furbizia. Come non ha potuto accorgersi che aveva tramutato quel referendum in un giudizio politico su se stesso? E, soprattutto, come non rendersi conto dei limiti enormi di quella riforma che andava a presentare al Paese con tanta supponente tracotanza? 



Non voglio dire che Matteo Renzi si sia sacrificato in un gioco delle parti con i poteri forti, ma è certo che la situazione politica che lascia è da mal di testa per il Quirinale: e perfetta per chi vuole speculare. Ma nessuno ci ha provato ieri: nessun effetto Trump del 9 novembre, nessun effetto Brexit. Sono bastate poche ore al mercato per digerire ciò che gli altri politici europei hanno vissuto come uno shock, almeno a parole? Certo, politicamente parlando Matteo Renzi resta segretario del partito di maggioranza, quindi non è affatto uscito di scena e, durante il suo discorso, ha sottolineato molto chiaramente come ora sia onere e onore di chi ha vinto presentare una proposta di riforma credibile della legge elettorale. Dal canto loro, Lega, Fratelli d’Italia e M5S hanno detto chiaramente che la legge c’è già, basta approvare le modifiche per il Senato e si può andare subito a votare: Forza Italia cosa dice? 



Da Arcore il silenzio riguardo quanto accaduto l’altra notte è stato fragoroso. Si rischia il pantano, proprio nel bel mezzo dell’approvazione della Legge di stabilità e delle ricapitalizzazioni bancarie: un azzardo enorme. Eppure i mercati non si sono accaniti, non hanno sfruttato l’attimo, pareva quasi che l’epilogo shock di domenica notte loro lo avessero già prezzato, fatte salve le tensioni overnight sull’euro/dollaro, anch’esse rientrate. Verso l’ora di pranzo, il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, gettava acqua sul fuoco, facendo notare come l’instabilità politica in Italia complichi la situazione per Roma e l’intera zona euro, ma non sia l’inizio di una nuova crisi del blocco: «Non credo sia l’inizio di una nuova crisi. Non ne vedo ragioni. L’instabilità politica complica la situazione per l’Italia e la zona euro. Ma è una nuova realtà con cui dobbiamo collaborare», ha detto Dijsselbloem all’ingresso dell’Eurogruppo. E ancora: «L’Italia è un’economia importante, una delle maggiori in Europa, gode di istituzioni molto forti. Potete vedere che la reazione del mercato finora è stata contenuta. Aspettiamo e vediamo quali saranno i prossimi passaggi politici, cosa farà il governo e cosa deciderà il presidente. La situazione dell’Italia non è cambiata dal punto di vista economico, le banche oggi non sono diverse da com’erano ieri», ha concluso Dijsselbloem, puntando quindi il ditino in base al motto che in cauda venenum



E a indebolire di nuovo il listino milanese, attorno al giro di boa delle 13, sono state proprio loro, le banche, soprattutto dopo che l’esponente del board della Bce, Ewald Nowotny, non ha potuto trattenersi dal ricordare che l’Italia potrebbe dover utilizzare risorse pubbliche per salvare alcune delle sue banche, anche attraverso l’ingresso nel loro capitale: «La differenza tra l’Italia e altri Stati come la Germania e l’Austria è che, finora, in Italia non c’è stato alcun aiuto pubblico significativo o nazionalizzazione», ha proseguito Nowotny, governatore della banca centrale austriaca. «Quindi non può essere escluso che sarà necessario che lo Stato prenda delle quote (nelle banche) in qualche modo», ha precisato. Ovvio riferimento a Mps, la quale ha raccolto poco più di 1 miliardo di euro dall’operazione proposta di conversione dei bond subordinati, rispetto a un massimo di oltre 4 miliardi di titoli convertibili e all’obiettivo ufficioso di raccolta di 1-1,5 miliardi di euro. Tanto che, stando agli analisti di Morgan Stanley, «gli aiuti di Stato al Monte dei Paschi appaiono sempre più probabili». Boom. 

Qual è ora il nodo, legato all’esito del referendum, quello che fece scrivere la scorsa settimana al Financial Timesche in caso di vittoria del “No”, otto banche italiane erano a rischio? Semplice, con l’instabilità politica creata dal referendum, il management di Mps – unitamente agli advisors e alle banche del consorzio – dovrà capire se il ventilato impegno della Qatar Investment Authority e di alcuni grandi investitori Usa, che potrebbe portare in tutto fino a 2 miliardi di euro, verrà meno. Quali strade alternative? Un’opzione potrebbe essere quella di far slittare la ricapitalizzazione, ma così facendo si rischierebbe di sovrapporsi con l’aumento di capitale da probabili 13 miliardi di euro di Unicredit, mentre un’altra strada è appunto quella di chiedere l’aiuto pubblico, chiedendo il cosiddetto burden sharing con la tutela degli obbligazionisti retail in alternativa al bail-in. Un’opzione già esplorata con Bruxelles la scorsa estate, visto che un bail-in, che l’istituto vuole evitare assolutamente, potrebbe avere un impatto stimato dalla banca in 13 miliardi di euro prima di poter chiedere l’intervento pubblico. 

Interpellato da Cnbc, Nicola Mai, executive vice president e analista del credito sovrano di Pimco, ha così descritto la situazione: «Il sentiment negativo dei mercati sul voto dovrebbe essere mitigato dal fatto che il “No” era già stato scontato dai sondaggi e che la Bce continua a essere l’attore principale nei mercati sovrani europei. Ma il risultato del referendum aggiunge ulteriori ostacoli alla ricapitalizzazione di Mps, aumentando i potenziali effetti negativi a catena sul resto del sistema bancario italiano e in particolare sui piani di raccolta di capitale di Unicredit». 

Fateci caso, nessuno si strappa le vesti per i mancati risparmi derivanti dalla riforma del Senato o dall’abolizione del Cnel: si parla solo di rischio instabilità e di banche. Ora, se le sentinelle della speculazione sono ferme, ovviamente per timore di schiantarsi contro il firewall della Bce, perché a Eurogruppo ancora da cominciare il buon Nowotny sente la necessità di mettere il dito nella piaga, invece che di abbassare i toni? Io capisco che la sistemicità del sistema bancario italiano per l’eurozona, ma proprio per questo, se si vuole davvero arrivare a una risoluzione positiva delle criticità, occorrerebbe pensare e parlare positivo, invece che continuare ad agitare Mps come uno spauracchio, tanto più che la situazione non è precipitata tra domenica e lunedì, ma è da coma vigile da mesi e mesi.

A che gioco sta giocando l’Ue? E, poi, perché domenica, quando ancora non si sapevano gli esiti della consultazioni in Austria e Italia, l’ineffabile ministro delle Finanze tedesco, quel Wolfgang Schaeuble che all’ultimo minuto aveva fornito l’endorsement al “Sì”, si è sentito in dovere di attaccare la Grecia in vista della riunione dei ministri delle Finanze Ue di ieri, dicendo chiaramente che «o Atene implementa nuove riforme o esca dall’eurozona»? Dobbiamo temere gli speculatori finanziari o i presunti partner europei? 

Io dico che questa domanda dobbiamo porcela seriamente, con cognizione di causa, perché sento una gran puzza di trappolone attorno a questo clima di calma nervosa per una soluzione rapida della nuova crisi politica italiana. È un mix da tempesta perfetta, caos politico a ridosso della ricapitalizzazione della prima e della terza banca italiana: possibile che Mario Draghi abbia davvero aumentato gli acquisti per mantenere il nostro spread a “soli” 166 punti base alle 13.30 di ieri? Oppure non c’è stato bisogno dell’intervento dell’Eurotower, perché il mercato si è messo in stand-by, in vista dall’avvio delle consultazioni per un nuovo governo? Un mercato vuole Padoan premier con un’agenda Ocse da rispettare, tanto che ieri il ministro ha disertato l’Eurogruppo ed è rimasto a Roma per il Consiglio dei ministri d’addio di Renzi? 

Io penso che un indicatore chiaro arriverà nei prossimi giorni: in caso lo schema predeterminato dal discorso di Renzi (ovvero, Pd attendista, M5S, Lega e FdI per il voto subito e Forza Italia e centristi in cerca di un governo condiviso e di scopo) si traduca in un pantano politico dal quale il Colle difficilmente riuscirà a uscire in maniera rapida, capiremo cosa le elites europee vogliono dall’Italia proprio attraverso lo spread. Se infatti Mario Draghi, a fronte di aumenti del differenziale, ci lascerà volutamente ballare per qualche tempo, significa che due terzi della troika vuole mandare un messaggio al Paese: o lo sbocco politico è quello che vogliamo noi o possiamo sempre imporlo con metodi simili a quelli del 2011. A quel punto, si rischia davvero grosso, perché il comparto bancario diventerà il tabellone per le freccette della speculazione, innescando un clima di panico tra i risparmiatori e un possibile rischio di bank-run sui conti correnti e sell-off sui nostri titoli di Stato. Insomma, scenario greco. 

Oggi, come non mai, servono rapidità e senso di responsabilità nel gestire questa transizione politica, altrimenti rischiamo di farci male sul serio. Segretamente, Bruxelles e Francoforte speravano in questo epilogo referendario, forti una della possibilità di rigettare il nostro Def e farlo riscrivere sotto dettatura da panico e l’altra del ruolo chiave di guardiano della spread, quindi deus ex machina a cui non si può dire di no. Occorre tempo per preparare l’addio di Mario Draghi alla Bce in maniera ordinata, quindi l’ipotesi del voto rapido è da escludersi: serve un bel governo rigorista, ma con il volto umano e di unità nazionale, un fantoccio che si occupi dell’ordinaria amministrazione prima della grande mossa finale. 

Molti analisti, soprattutto britannici, continuano a dire che la vittoria del “No” ha innescato un percorso senza ritorno: voto anticipato, governo M5S, addio all’euro da parte dell’Italia e conseguente collasso dell’Unione europea. Io non ci credo, almeno non in questo modo: l’Ue finirà quando non servirà più alla Germania. E con la Fed che non può permettersi un dollaro troppo forte sull’euro e che a metà mese sarà chiamata a decidere sui tassi, penso che a Berlino – dove intendono conservare gelosamente il loro surplus record e si fregano le mani per un export a cannone, garantito dalla quasi parità euro/dollaro – faranno di tutto per permettere la nascita di un governo manovrabile a Roma, anche aprendo a concessioni sulla flessibilità. 

Attenzione a quali carte distribuiamo sul tavolo, stavolta è l’ultimo giro di poker possibile. Vediamo giovedì quale asso calerà Mario Draghi alla riunione del board.