Era abbastanza normale attendersi lo sviluppo, ma ora la battaglia si fa pesante. E ci dirà, davvero, chi comanda nel centrodestra e quali siano le reali intenzioni di Silvio Berlusconi. Come saprete, il presidente Mattarella ha chiesto a Matteo Renzi di congelare le sue dimissioni fino al passaggio definitivo al Senato della Legge di stabilità, il quale deve avvenire entro il 31 dicembre per evitare l’esercizio provvisorio. Il premier, tornato a Palazzo Chigi dal Quirinale, ha comunicato di aver accettato «per senso di responsabilità» e che si dimetterà subito dopo l’ok alla manovra, il quale potrebbe arrivare già entro questo venerdì se l’Aula non dovrà affrontare ostruzionismi.
Il problema, però, allo stato dell’arte è duplice: da un lato, a M5S, Lega e Fratelli d’Italia, lunedì pomeriggio si sono uniti formalmente anche i capigruppo di Forza Italia, Brunetta e Romani, nella richiesta di ottenere subito le dimissioni del governo e affidare a quello di nuova nomina, da farsi rapidamente, il passaggio della Legge di stabilità, questo anche per evitare che in essa rimangano quelle norme ritenute prebende e mance elettorali per il referendum. Non appena uscita la nota del Quirinale, è giunta la reazione un po’ cerchiobottista di Berlusconi, il quale ieri a pranzo ha riunito lo stato maggiore di Forza Italia: «Confido nella mediazione di Mattarella, spero in elezioni in tempi ragionevoli». E se oggi Matteo Renzi dovrà affrontare la Direzione del Pd, una sorta di resa dei conti già annunciata da Bersani su Facebook, dall’altro, c’è l’Europa, la quale come vi avevo anticipato, non ha fatto sconti all’Italia durante l’Eurogruppo di lunedì, lanciando segnali inequivocabili. Per Bruxelles, «la manovra italiana è a rischio di non conformità con il Patto di stabilità e crescita europeo e, su questa base, per l’Italia sarebbero necessarie significative misure aggiuntive». E ancora: «Invitiamo l’Italia ad adottare le misure necessarie per garantire che il bilancio 2017 sia compatibile con le norme del braccio preventivo del Patto. L’alto livello del debito italiano resta motivo di preoccupazione», inoltre i ministri ricordano «l’impegno a utilizzare guadagni inattesi e risparmi imprevisti nel 2017, e a rafforzare gli sforzi di privatizzazione per portare il debito su un percorso di discesa». I favori, inutili visto l’esito del referendum, si pagano e ora il conto di Renzi dovremo pagarlo.
Poi, la virata verso orizzonti di saggezza ma che nasconde la fregatura solenne: per il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijssemlbloem, «tuttavia, vista la situazione politica, è impossibile chiedere al governo italiano di impegnarsi per decidere misure aggiuntive e avvicinarsi maggiormente agli obiettivi di medio termine previsti dal Patto di stabilità europeo. Dipende dall’Italia e dal suo presidente delineare le prossime passi e le prossime decisioni». Della serie, l’agenda al prossimo governo, sia esso un Renzi-bis o un Padoan primo, l’abbiamo già scritta noi, di votare anticipatamente levatevelo dalla testa. Poi, puntuale e simpatico come morte e tasse, ha sentito il dovere di prendere la parola anche il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, a detta del quale «è urgente che si formi un nuovo governo, spero che continuerà le riforme, perché l’Italia deve continuare sulla strada cominciata da Renzi tre anni fa. Anche se i cittadini italiani non accettano questa modifica costituzionale, non c’è ragione per parlare di eurocrisi, dal punto di vista economico e politico l’Italia deve continuare sulla strada tracciata».
Chissà se prima di morire avrò il piacere di avere un presidente del Consiglio o della Repubblica che a gente come Schaeuble saprà rispondere per le rime, dicendogli di preoccuparsi della Germania, perché l’Italia non ha bisogno di lezioni da chi trucca i conti pubblici e farebbe bene e a preoccuparsi di Deutsche Bank: ne dubito. Tanto più che a smentire la parole di Schaeuble ci ha pensato, in contemporanea all’Eurogruppo, proprio l’ex governatore della Bundesbank e attuale numero uno di Ubs, Axel Weber, a detta del quale «gli investitori sono pericolosamente impreparati a una netta salita dei rendimenti obbligazionari nell’eurozona, quando i tassi di interessi Usa cominceranno a marciare verso l’alto e il Quantitative easing della Bce finirà». Per Weber, «l’aumento dei tassi Usa potrebbe innescare grossi scossoni sul mercati, visto che il periodo molto lungo di accomodamento monetario aggressivo a livello globale ha lasciato molti investitori in uno stato di guardia abbassata nei confronti di uno scostamento nel ciclo dei tassi globali».
Poi, la parte più interessante e di attualità: «Non penso che avremo un aumento della divergenza nelle politiche da parte delle Banche centrali ancora per molto, tanto che penso che la Bce alzerà i tassi al più tardi nel settembre del prossimo anno. Io penso che l’Eurotower sia più vicina a un rallentamento del programma di Qe di quanto molti partecipanti del mercato si aspettino». Per finire, «i mercati sanno come prezzare e scontare un rischio di mercato, ma gli stessi sono molto meno bravi a prezzare l’incertezza politica».
Sono tesi forti, quelle di Weber. Una delle quali deve farci molto riflettere: a suo dire, la Bce alzerà addirittura i tassi, al più tardi il prossimo settembre. A mio modo di vedere, stante la situazione attuale, un qualcosa di impossibile. A meno di un euro che vada completamente fuori controllo a causa di un evento traumatico, di quelli sistemici: Weber ha voluto evocare, senza nominarlo, il rischio di un’uscita dell’Italia dall’euro il prossimo anno? Oppure, il suo è un concordato gioco di sponda con il governo tedesco per tenere l’Italia nel mirino e togliere dai riflettori Berlino e i guai dell’Ue?
C’è da dire, però, che in effetti l’elezione di Trump è andata a rinfocolare gli entusiasmi degni di miglior causa di Bce e Bank of Japan rispetto a un grosso round inflazionistico in arrivo in tempi brevi: e se invece arrivasse un’esplosione della bolla sugli assets dovuta a deflazione, con le Banche centrali costrette invece a invertire la dinamica dei tassi, sempre che mai abbiano cominciato a rialzarli? Non è che la Fed ci regalerà la Christmas surprise, innescando una corsa disperata al finanziamento in dollari per tutti quei Paesi gravemente indebitati in biglietti verdi? Come vedete, ci vuole poco e non servono grosse capacità acrobatiche per partire dal congelamento delle dimissioni di Matteo Renzi e arrivare a scenari macro globali, ormai il mondo è questo, la politica è un’appendice operativa ma soggiogata di economia e finanza.
Una cosa, però, non riesco a levarmi dalla testa. Ovvero, il dubbio che quanto sta accedendo abbia non solo una ratio ma anche una pianificazione a tavolino: già tempo fa vi dissi che mi pareva molto sospetto spingere la data del voto fino all’ultima domenica utile, in pieno inverno e soprattutto a ridosso del passaggio finale della Legge di stabilità e delle ricapitalizzazioni bancarie, Mps in corso e Unicredit a seguire. Si poteva votare a fine ottobre, a metà novembre: no, in pieno caos legislativo e bancario e quattro giorni prima di una delle più importanti riunioni del board della Bce dal lancio del programma di Qe. Com’era ovvio, almeno per chi valutava la vittoria del “No” un’ipotesi probabile, il presidente della Repubblica ha dovuto anteporre alle schermaglie tra gli schieramenti, la necessità di fare passare in tempo la Legge di stabilità, di fatto congelando l’addio di Matteo Renzi. Rientrerà dalla finestra, magari perché da qui a fine anno Mario Draghi ci lascerà ballare un po’ con lo spread, viste le più che probabile scintille tra governo e opposizione su voto anticipato, legge elettorale e Legge di stabilità da far passare, blindata, con una fiducia tecnica?
Difficile, ci sono 19 milioni di buone ragioni per non tentare questo azzardo, ma prima di dare per morto politicamente uno come Matteo Renzi, meglio pensarci cento volte, non fosse altro perché è ancora segretario del Pd e perché lo sparigliamento di Angelino Alfano, con la richiesta di elezioni già a febbraio, sembra prodromico a una nuova strategia: ottenere il voto anticipato per restare in sella fino alle urne. Ma, comunque sia, Jerome Dijsselbloem è stato chiaro: alla manovra extra ci penserà il prossimo governo, sia esso presieduto ancora da Matteo Renzi, come vorrebbe la Germania o da Pier Carlo Padoan, come vorrebbe Juncker. Una sola cosa è esclusa dall’Ue, votare prima della scadenza della legislatura o, almeno, prima dell’ultimo trimestre del 2017. Andrà così?
Domani Mario Draghi potrebbe darci una conferma o una smentita tra le righe, delinenado il futuro del programma di stimolo che sta mantenendo artificialmente basso lo spread, ieri ancora in calo e alta l’appetibilità del nostro debito sul mercato. Ma ricordate, il 13% delle nuove emissioni di Bankitalia sono in pancia a hedge funds, i quali oggi ci sono e domani chissà. Per il resto, io continuo a pensare che il timoniere occulto di questo snodo storico sia, per sua scelta e volontà, residente ad Arcore.
P.S.: Questo referendum, almeno per quanto riguardo il sottoscritto, ha portato con sé una grande e importante conferma: i Cinque Stelle sono così ingenui, fuori dalle logiche di palazzo e coerenti che, un secondo dopo la vittoria del “No”, hanno subito fregato tutti, chiedendo di usare l’Italicum anche al Senato per votare subito. Attenti ai troppo puri.