Lo dico ai sostenitori del “No” (di cui ho fatto parte): evitiamo di cadere nel ridicolo. Il fatto che la Borsa di Milano martedì abbia chiuso oltre i 4 punti percentuali (e anche ieri è rimasta tonica) non ha nulla a che fare con il referendum e il suo esito. Anzi, sì ma non nel senso comune che si offre a questa correlazione: a far schizzare l’indice al rialzo è stata la notizia della fiducia blindata con cui il Senato ha licenziato la Legge di stabilità, unita a una ricopertura di massa sui titoli del nostro comparto bancario dovuta alla visita dell’ad di Mps alla Bce, foriera di una dilazione sui tempi della ricapitalizzazione e di uno scudo del Tesoro. Nessun miracolo post-renziano, insomma ma il combinato disposto tra messa in sicurezza del documento di programmazione economica, speranza di uno sbocco positivo per la banca senese e certezza che oggi Mario Draghi annuncerà il prolungamento del Qe, magari ampliando la platea del collaterale eligibile all’acquisto.
Tanto più che, appena chiusa la giornata record di contrattazioni, sul nostro sistema bancario è calata la scura di Fitch che ha spostato in negativo l’outlook sul comparto. «La bocciatura subita dal progetto del governo – spiegava una nota dell’agenzia di rating – ha ulteriormente accresciuto l’incertezza politica e ridotto la capacità di realizzare le riforme economiche». E proprio i rischi legati all’instabilità politica erano uno dei fattori citati da Fitch della revisione a negativo dell’outlook del rating sovrano italiano nell’ottobre scorso. In generale, l’outlook negativo per il settore creditizio italiano, «riflette la sua accresciuta vulnerabilità agli shock a seguito del deterioramento della qualità degli attivi in portafoglio». La pressione di autorità e mercato a ridurre l’alto livello di crediti non performanti, dice Fitch, «ha fatto aumentare l’urgenza e i rischi, anche perché la redditività del settore è fragile e l’alto ammontare dei non performing loans potrebbe comportare perdite che richiederebbero capitale addizionale». Insomma, Fitch ha scoperto l’acqua calda e ha voluto soltanto vendicarsi del “No” al referendum: poverini, si divertono con poco, tanto la loro credibilità tra chi investe è pari a zero e il Qe ha devastato il concetto stesso di investment grade.
C’è però un dato politico interessante: Fitch è l’unica europea della “tre sorelle” del rating, essendo per metà francese attraverso la Fimalac, una società finanziaria che nel 1997 acquisì la Fitch Investor Services e la fuse con l’agenzia londinese Ibca Limited, dando vita a Fitch Ibca. Certo, il cervello e il cuore dell’agenzia sono a New York e il suo braccio operativo a Londra, ma rimane il dubbio che un timing così preciso per quel downgrade sulle prospettive del nostro sistema bancario sia un messaggio nemmeno troppo in codice per la nostra politica, alle prese con uno snodo fondamentale. E a far aumentare la puzza di bruciato di una pesante intromissione estera nei fatti di casa nostra, ci ha pensato anche l’intervista concessa al quotidiano economico tedesco Handelsblatt, quello che consigliò ai suoi lettori di comprare bond greci, da parte di Volker Wieland, uno dei consiglieri economici del governo tedesco che formano il consiglio dei “Cinque Saggi”. Tema, nemmeno a dirlo, l’Italia post-referendum e il suo stato di salute economico, tale – a detta di Wieland – da far prospettare l’arrivo della troika e l’attivazione del fondo Esm da parte di Roma. Insomma, si comincia con il settore bancario per poi pietire, cappello in mano, sostegno per i conti pubblici.
«Il nuovo esecutivo dovrebbe chiedere un programma di aiuti all’Esm», ha tuonato il consigliere della Merkel, di fatto accomunandoci a quei Paesi che negli anni hanno dovuto bussare alla porta del Meccanismo di stabilità europeo, il cosiddetto Fondo salva-Stati, per evitare il default sui conti pubblici. Il problema è che una volta bussato con il cappello in mano, automaticamente il Paese richiedente deve a sua volta aprire la porta alla troika, ovvero ai rappresentanti della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale. «Il referendum sulla riforma costituzionale non ha modificato in alcun modo la situazione in Italia. Il Paese ha bisogno al più presto di un governo in grado di agire e questo esecutivo dovrebbe chiedere un programma di aiuti all’Esm… anche l’Fmi dovrebbe essere coinvolto nel programma di aiuti a sostegno dell’Italia. Il piano da un lato rappresenterebbe uno “scudo” in caso di crisi debitoria in Italia e, dall’altro, Esm e Fmi assieme potrebbero esercitare le giuste pressioni per sbloccare le riforme». Ma non basta. Per Wieland, Renzi avrebbe sbagliato perché «ha legato il suo futuro politico alla riforma costituzionale, invece di portare avanti riforme ambiziose sul mercato del lavoro, dei prodotti, dell’amministrazione pubblica e della giustizia».
Nell’intervista ad Handelsblatt, il consigliere della Merkel dice anche che «chiunque si trovi a governare il Paese in futuro, deve finalmente creare le condizioni economiche necessarie per una crescita sostenibile. L’Italia ha bisogno di una politica dell’offerta vicina al mercato… Se il nuovo governo non affronterà con forza questi problemi, l’Italia non riuscirà a restare a lungo nell’unione monetaria». Insomma, la Francia – facendosi ombra dietro ai soci americani – e la Germania ci inviano segnali di fratellanza e solidarietà in questo momento così delicato per la nostra vita pubblica e la nostra economia: che dire, tocca ringraziarli sentitamente. Ma si sa, stando lungo la sponda del fiume, prima o poi, i cadaveri dei nemici passano. Nè sa qualcosa Nicolas Sarkozy, passato dai sorrisetti idioti con la Merkel a essere umiliato alle primarie del centrodestra francese e ne sa qualcosa anche la stessa Cancelliera, martedì protagonista di uno dei più vergognosi voltafaccia mai visti sull’immigrazione al congresso della Cdu a Essen.
D’altronde, Francia e Germania per farsi i fatti loro hanno bisogno di un’Italia controllata e spaventata, debole e sottomessa. Tanto più che, minacce o non minacce, loro sanno benissimo che se salta il nostro sistema bancario, quello francese lo segue un quarto d’ora dopo e quello tedesco il giorno dopo per contagio diretto sulla controparte parigina. Quindi, fate i bravi e smettetela di comportarvi da bulli, perché non ne avete il physique du role. Tanto più che, impegnati come sono a gettare fango sull’Italia, tedeschi e francesi stanno snobbato quella che rischia di diventare la vera crisi europea 2.0, pur non riguardando un Paese ufficialmente nell’Ue.
Ricorderete come qualche settimana fa, il presidente turco Erdogan avesse dichiarato che lo scopo della presenza militare turca in Siria fosse quello di rovesciare il governo Assad. Una sparata che interessò e fece parlare la stampa di tutto il mondo, tranne ovviamente quella italiana, perché sembrava sancire una nuova rottura con la Russia, dopo il riavvicinamento avvenuto subito dopo il tentato golpe del 15 luglio. Bene, Erdogan non ha la minima intenzione di fare sgarbi a Putin (ci tiene alla pelle), il suo scopo era quello di distrarre media e opinione pubblica da altro: ovvero dalla terribile crisi valutaria che sta colpendo la lira turca, un qualcosa di così serio da preparare il terreno a un intervento shock della Banca centrale di Ankara. Nelle ultime sei settimane, la valuta turca si è deprezzata dell’11% contro un paniere valutario euro-dollaro bilanciato, una svalutazione che sta esacerbando la situazione piuttosto che fornire una valvola di sfogo.
E il grafico a fondo pagina ci spiega il perché: le liabilities valutarie corporate turche si sono espanse a un livello quasi senza precedenti negli ultimi anni, visto che stando a dati fino all’agosto scorso eccedevano gli assets valutari di 210,5 miliardi di dollari, un aumento del 15% su base annua. A causa di questa condizione, le aziende turche sono state costrette a comprare sempre più valuta estera, di fatto scatenando un effetto domino anche tra la popolazione, la quale ha cominciato a fare incetta di euro e dollari nel timore che da un giorno con l’altro si arrivasse a controlli sul capitale o mosse valutarie ancora più drastiche. Non è un caso che lo scorso weekend, il presidente Erdogan abbia chiesto ai suoi connazionali di cominciare a riconvertire la valuta estera in loro possesso in lire turche, ma le sue parole non sono state sufficienti a bloccare gli outflows, forse perché nello stesso discorso ha anche chiesto, per l’ennesima volta, di abbassare i tassi di interesse, un qualcosa che gli investitori proprio non vogliono sentire. Soltanto un improvviso e grosso aumento dei tassi potrebbe infatti bloccare questo trend, ma Erdogan sta lottando per ottenere l’opposto, di fatto spingendo i mercati a vendere sempre di più la moneta turca: siamo al circolo vizioso auto-alimentante.
Oltretutto, la situazione macro a livello globale non sta aiutando Ankara: essendo uno dei principali importatori di materie prime, i termini commerciali della Turchia stanno ricominciando a crollare, anche a causa dell’accordo Opec della scorsa settimana, mentre la minaccia di Trump di minore interventismo sta facendo crescere il premio di rischio sugli assets della regione. Abbiamo già visto questo film due volte in Turchia prima di oggi, nel 2006 e nel 2014 e i traders dovrebbero sapere come potrebbe andare a finire: Erdogan alla fine potrebbe cedere e la Banca centrale alzare, di molto, i tassi di interesse, portando però a un’ulteriore, grave contrazione di un’economia che sta già rallentando.
Ecco come Mark Cudmore di Bloomberg ieri ha descritto la situazione: «Riempitevi pure la pancia con lo spettacolo italiano per oggi, ma ricordatevi che è solo l’antipasto. La portata principale è la Turchia». Chi lo dice a Parigi e Berlino? Ah, dimenticavo: ieri sempre Handelsblatt ha scritto che oggi Mario Draghi annuncerà l’acquisto di titoli azionari. Toglietegli il vino, per favore.