Lunedì 28 novembre, a una settimana dal referendum, UniCredit quotava sui minimi, sotto 1,9 euro. Ieri – quarta seduta post-voto, in giornata festiva – ha sfiorato 2,65 euro: in nove sedute ha recuperato il 39%. È vero che un anno fa il titolo valeva ancora il doppio. L’allora amministratore delegato Federico Ghizzoni aveva appena presentato un piano strategico incentrato su 18mila tagli nell’organico (poco più del 15%): i mercati lo ignorarono, anche perchè la governance di Piazza Gae Aulenti stava vacillando sotto il “caso Palenzona”. Fra quattro giorni un nuovo amministratore delegato di UniCredit, Jean Pierre Mustier in carica da luglio, presenterà un nuovo business plan; anzi un turnaround plan, imperniato su una ricapitalizzazione stimata fino a 13 miliardi. La ristrutturazione del gruppo è comunque già in corso: anche ieri – quando Mustier ha recitato da star del momento nel foyer della prima alla Scala – UniCredit ha concluso la dismissione di un pacchetto della controllata polacca Pekao (il controllo verrà ceduto probabilmente già prima di martedì al gruppo assicurativo pubblico polacco Pzu). Il mercato sembra aver premiato anzitutto la rapidità con cui il nuovo Ceo francese ha iniziato ad alleggerire un gruppo i cui equilibri patrimoniali erano pericolosamente peggiorati.



Vendere sarà pur facile sulla carta: ma farlo senza “svendere” quando scadenze e vigilanza premono e quando l’instabilità politico-economica è forte in Italia e in tutt’Europa non è stato da tutti. Mustier l’ha fatto e ora, fra l’altro, la base di partenza per l’aumento non sarà gli 1,7 euro che avevano segnato il cambio della guardia estivo fra Ghizzoni e Mustier. Gli azionisti di maggioranza (dalle Fondazioni italiane a Caltagirone-Del vecchio, dai grandi fondi internazionali ad Allianz) affronteranno una svalorizzzaione implicita o una diluizione potenziale meno penalizzanti.



Di più, al giro di boa UniCredit mostra di essere un gruppo bancario relativamente appetibile sui mercati, anche se almeno un paio di tasselli importanti devono ancora andare a posto. Ed entrambi gli sviluppi non interessano non solo l’unica banca italiana “globalmente sistemica”, ma in fondo l’intero sistema bancario nazionale in mezzo al guado. Il primo riguarda lo smaltimento delle sofferenze creditizie (Npl): 50 miliardi lordi nel bilancio UniCredit, con un impatto netto previsto di sette. Saranno ceduti sul mercato a un pool di grandi operatori (Cerberus, Fortress, Pimco): su questo versante non si può prescindere completamente dal mercato, come invece ha inizialmente immaginato di poter fare Atlante. Se Mps, dopo il rinvio ottenuto presso la Bce, non influirà sul piano UniCredit è invece possibile che piazza Gae Aulenti indichi la strada anche a Siena: per quanto il probabile intervento pubblico collochi quella in una cornice diversa.



Ma i due dossier – per profili diversi “dossier-Paese” – potrebbero ritrovare momenti di analogia nell’orizzonte strategico ultimo. UniCredit – e qualche elemento utile è già atteso martedì dalla presentazione di Mustier agli analisti della City – deve chiarire in che misura vuole restare un polo “paneuropeo” (integrando ancora le attività di Germania e Austria) o quanto invece la strategia può considerare una riduzione dimensionale e ulteriori cessioni di asset principali. Di qui gli ulteriori interrogativi sulla successiva integrabilità di un UniCredit più o meno grande con altri poli europei (i mercati più volte hanno ragionato sull’ipotesi di fusione con la francese Société Générale). Mps, qualunque sia l’exit immediata, si dovrà confrontare con lo stesso problema: in quale dimensione stabilizzarsi, a chi guardare (prevedibilmente fuori Italia) per un’aggregazione che dia futuro a un’istituzione finanziaria crollata su se stessa dopo 544 anni?