Matteo Renzi è tornato sabato, da Ventotene, sull’Europa, sul sogno di Altieri Spinelli e sull’amara realtà di oggi, sul rischio che quel progetto, pur sfrondato dalla sua chioma utopistica, affondi del tutto. “Qui è nata l’Europa – ha detto – noi non la faremo morire”. E il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco parlando al Forex ha ammesso che quel rischio è meno lontano di quanto si immagini: se il bail-in non verrà rivisto con una bella dose di buon senso, si incrinerà il rapporto di fiducia che è l’architrave di ogni sistema finanziario. A quel punto, comincerà la corsa a salvarsi ciascuno a modo proprio.
L’idillio di Berlino che molti giornali filo-governativi ci hanno raccontato, dunque, è durato poche ore. Del resto, che cosa ha ottenuto Renzi da Angela Merkel? Solo la promessa di essere ammesso al tavolo del potere europeo. Il capo del governo italiano aveva annunciato al New York Times che il suo obiettivo era sostituire all’asse Berlino-Parigi una trojka con Roma. Ma per il momento si deve accontentare di parole che hanno costi pesanti.
Per esempio, deve dare via libera ai tre miliardi di euro per la Turchia, come ricompensa per trattenere più profughi possibile. Renzi ha detto sì, però tutto si sposta a Bruxelles dove l’Italia cercherà di ottenere il permesso a detrarre la propria quota (281 milioni) in deroga dalla regola del deficit. Sulla flessibilità la Cancelliera ha rinviato tutto alla commissione Ue, sia lei che Renzi hanno fatto a gara a gettare le patate bollenti nelle mani ormai ustionate di Jean-Claude Juncker. Ma sul debito pubblico la Merkel è stata chiara: l’Italia deve ridurlo e non lo sta facendo. Anche nella conferenza stampa la Cancelliera ha fatto riferimento più volte alla questione del debito, il macigno che oggi si frappone a ogni riavvicinamento tra i due paesi.
Dunque, il tiro incrociato sull’Italia non si fermerà. Come ha scritto l’ex ministro Moavero è del tutto inusuale che ci siano tanti dossier aperti contemporaneamente con un solo Paese e su questioni tanto rilevanti: dalla politica di bilancio alla politica industriale, dai rifugiati a normative come le nozze gay. La maggior parte di questi fascicoli riguarda temi sui quali è determinante la Germania, sono scelte legate strettamente al rapporto tra Berlino e Roma che è cattivo se non pessimo da molti anni. Prima la colpa veniva gettata su Berlusconi e sulla sua incontinenza puramente verbale (Berlusconi ha accettato tutto, dalle norme squilibrate sulle banche al Fiscal compact). Poi è arrivato Mario Monti, un eurofilo ed ex eurocrate stimatissimo, ma le cose sono cambiate solo nella forma, non nella sostanza. Come mai?
Secondo un’interpretazione, dipende dal fatto che la lunga recessione ha prodotto vinti e vincitori: l’Italia è tra i vinti, la Germania è uscita vincitrice e vuole dettare la sua legge a tutti gli altri. Una versione più benevolmente europeista sostiene che la crisi ha rotto quella solidarietà europea che aveva dato vita all’euro e sono riemersi gli egoismi nazionali, mentre non si è fatto nessun passo verso una maggiore integrazione. In un caso o nell’altro, viene meno ormai l’Unione inclusiva così come si era configurata prima del 2008.
Prende spazio, dunque, il vecchio progetto tedesco di un’Europa a cerchi concentrici con un nocciolo duro composto di paesi che condividono le stesse politiche (non solo moneta ed economia, ma difesa e sicurezza). Una Kerneuropa come l’aveva chiamata Schaeuble nel 1994. L’Italia ne farà parte? Nel 1994 no, restava fuori, poi ci fu una serrata polemica e alla fine fu Helmut Kohl ad aprire le porte, sotto la pressione di Jacques Chirac (il Presidente francese temeva l’abbraccio tedesco e voleva bilanciarlo con i paesi del sud Europa). Oggi il problema si ripropone in termini ancor più stringenti. E il ministro degli esteri Paolo Gentiloni ha detto chiaramente che l’Italia sarebbe disponibile a un’unione a geometria variabile, ma vuol far parte del primo cerchio.
La questione di fondo, quella del tavolo dei grandi, dunque, non è solo una fissazione renziana o una rivendicazione da sfigati. È la questione chiave del prossimo futuro, il progetto attorno al quale ruota il confronto europeo. E dal suo esito dipenderà anche la collocazione dell’Italia. Ma se questa è la posta in gioco perché non dirlo apertamente, perché non aprire un serio dibattito, perché non coinvolgere il Parlamento, presentare la proposta italiana e chiedere un voto, con il quale andare a negoziare da posizioni di forza con la Germania?
La politica dello strepito, così come quella dell’aumm aumm, si rivela controproducente. Meglio porre le questioni sul tavolo in modo chiaro, con una netta individuazione del conflitto degli interessi e la definizione seria e ponderata di che cosa serve all’Italia. Renzi non ama consigli, nemmeno quelli che vengono dal Giglio tragico, figuriamoci quando arrivano da fuori, ma forse questa volta dovrebbe fermarsi ad ascoltare.