L nuovo pasticciaccio bancario creato dal premier Matteo Renzi attorno alla riforma del Credito cooperativo – probabilmente al di là del suo controllo della situazione – non è il conflitto d’interessi (vero o alla fine presunto) attorno alle Bcc toscane, cugino di quello – sempre presunto – su Banca Etruria. Le Bcc toscane hanno sempre – volontariamente, consapevolmente – abitato in un cerchio esterno rispetto alla vasta comunità che si riconosce nell’attuale Federcasse: cioè in un movimento-sistema che vive e progredisce da un secolo abbondante.



Non è un caso che l’articolo 2 dello statuto standard delle Bcc aderenti alla Federazione presieduta da Alessandro Azzi sia adottato nella sua versione integrale solo da 14 delle 15 federazioni regionali del Credito cooperativo italiano: non da quella toscana. L’articolo 2 richiama (fra parentesi solo per le Bcc toscane) “i principi dell’insegnamento sociale cristiano” accanto ai “principi cooperativi della mutualità senza fini di speculazione privata”.



Il punto è chiaro “a prescindere”: le Bcc del gruppo Cabel oppure la Bcc del Chianti – di cui è incoming president il presidente del consiglio di sorveglianza dei Société Générale, il fiorentino Lorenzo Bini Smaghi – non erano parte integrante del Credito cooperativo italiano prima, non era previsto che lo fossero dopo, non è obbligatorio ora che siano parte del nuovo Gruppo Cooperativo Italiano. Ma per asseverare questo dato di fatto c’era bisogno di stabilire un dirompente meccanismo generale di sganciamento, macchinosa alternativa alla surreale pluralità di gruppi cooperativi, storicamente inesistente in Italia? Era necessario mettere in discussione le specificità della cooperazione, costituzionalmente riconosciuta perché no-partizan nella struttura socio-economica del Paese?



Il “Credit Agricole italiano” (copyright martellante dello stesso premier Renzi, da un paio di mesi) nascerà ” a prescindere”: è un obiettivo-Paese di politica creditizia maturato in un anno di lavoro duro e condiviso fra Federcasse, la Banca d’Italia (la supervisione Bce), il ministero dell’Economia, si suppone anche con l’appoggio della Presidenza del Consiglio. “Lo vuole l’Europa, lo vogliono i mercati”, si sarebbe detto e scritto nel 2011. Cinque anni dopo il governo Renzi lo può dire e scrivere grazie a pezzi di sistema-Paese che credono nel loro Paese e nel suo governo. Ci ha creduto anzitutto la centrale delle 370 Bcc italiane: le grandi, le medie, le micro. Quelle del Nord, quelle del Centro e quelle del Sud. Quelle che hanno resistito meglio agli ultimi otto anni: quelle che sono più in affanno. Quelle che fonderanno altre Bcc per aiutarle; quelle che si fonderanno e potranno sopravvivere (vivere domani). Quelle come la Bcc di Roma, che potrebbe tranquillamente andarsene in way-out, trasformarsi in una Popolare e invece ha deciso di essere socia fondatrice del Gruppo Cooperativo Italiano. Quelle come le Bcc trentine, idem. Avevano le carte in mano per farsi gruppo a sé, andarsene per la loro strada, per “mettersi sul mercato”: al di qua o al di là della Alpi. 

Hanno messo per iscritto, in anticipo sulla riforma, che loro invece nel “Credit (agricole) italiano” ci saranno, ci vogliono essere: cento per cento, tutti a bordo, dal diciannovesimo al ventunesimo secolo. Tale Alcide De Gasperi – che anche Renzi cita volentieri – mica è un santino ingiallito: prima di costruire dalle macerie una Repubblica democratica, si era fatto le ossa fra le casse rurali trentine. Per non parlare delle Casse Raiffeisen sudtirolesi: tutto a posto, sottogruppo “coeso” col gruppo unico Federcasse-Iccrea Holding-Cassa Centrale di Trento-Bcc Roma. E sono quelle della Provincia autonoma di Bolzano-Bozen, con tutela costituzionale da accordi internazionali: quattrocento chilometri a nord di Cambiano e Fornacette, provincia non-autonoma di Pisa.

Il pasticciaccio è questo: De Gasperi – che il Parlamento democratico italiano l’aveva fatto nascere – avrebbe portato in Parlamento un decreto-legge (una legge) in cui una previsione generale fosse stata finalizzata a proteggere una cassa rurale della sua Valsugana contro un interesse generale di politica creditizia, radicato orizzontalmente nel Paese? No, non l’avrebbe fatto. E non per evitare un’accusa di conflitto d’interessi (alla fine non realistica neppure per il suo successore cristiano-democratico Matteo Renzi): non l’avrebbe fatto perchè una democrazia adulta non funziona così. Non l’avrebbe fatto perchè un governo è un governo e basta. Perchè un premier – un premier con la P maiuscola, come De Gasperi – prima fa nascere il Gruppo Cooperativo Italiano, poi partecipa alla prima assemblea, chiede di parlare e dice: “Mi aspetto che diate sempre un euro in più di credito, in Trentino, in Lombardia, in Toscana, in Veneto, in Sicilia, in Alto Adige. Che lo diate alle famiglie, alle imprese, ai giovani, alle donne, a tutti, anche a chi ha con la crisi è per terra. Mi aspetto che nelle Bcc non licenziate mai nessuno. Mi aspetto che mi capiate se a Bruxelles e a Francoforte sto sputando sangue come voi. Mi aspetto che se qualche pezzo di sistema bancario italiano avrà bisogno di una mano, la potrò chiedere anche a voi del Credito cooperativo. Grazie in anticipo, buon lavoro alle Bcc, alla nuova holding, al gruppo”.

Il pasticciaccio (rimediabile) è che l’altra sera Renzi ha riunito il Consiglio dei ministri dopo le ore ventuno ed è andato in tv a notte fonda: senza cravatta, stanco morto si vedeva lontano un miglio. Questo – peraltro – per chi vive nel credito cooperativo non è un pasticciaccio: è la normalità. Nelle Bcc e nelle federazioni ci si vede, si lavora dopo cena, il sabato e la domenica, quando e dove capita. E’ la “democrazia materiale”, quella che produce il Pil ogni giorno. Chissà se De Gasperi lo ha mai detto. Di sicuro lo ha fatto spesso. Sempre in tempo. In Parlamento.