Il professor Nicola Rossi è un economista stimato e un autorevole ex senatore del Pd: per questo è una voce che IlSussidiario.net interpella sui grandi temi di politica economica. In un colloquio con il Corriere della Sera, ieri mattina, Rossi ha rivelato alcuni dettagli sul varo della riforma del Credito cooperativo, che sta arroventando il dibattito politico-finanziario.



Al centro del crescendo polemico c’è una previsione controversa – in un decreto peraltro firmato solo ieri sera dalla Presidenza della Repubblica – a favore della way-out per le Bcc che desiderino derogare all’ingresso standard nel nuovo Gruppo Cooperativo Italiano messo in cantiere dalla riforma. Nel merito: il decreto assicurerebbe alle Bcc con patrimonio superiore ai 200 milioni una corsia d’uscita (trasformazione in Popolare o in Spa) al costo fiscale forfetario del 20%. E questo avverrebbe senza sottrazione piena della riserve patrimoniali ordinariamente prevista dalla legge per tutte le cooperative che decidono di abbandonare forma societaria e movimento coop.



Ancora nel merito, una delle Bcc che hanno subito confermato un orientamento già noto alla way-out è quella di Cambiano, in provincia di Firenze. Il presidente è Paolo Regini, storico supporter del premier Matteo Renzi, ex sindaco di Castelfiorentino (la moglie Laura Cantini è oggi senatrice Pd). Nella filiale di Firenze della Bcc di Cambiano lavora Marco Lotti, padre di Luca, attuale sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. La Bcc di Cambiano fa parte del gruppo Cabel: una pattuglia di Bcc toscane storicamente esterne alla Federcasse e date invece, ultimamente, per vicine a Renzi.

Rossi ha raccontato al Corriere tre cose. La prima è di “aver studiato” il problema way-out “per conto della Bcc di Cambiano e della Cassa Padana”, quest’ultima una Bcc in provincia di Brescia. La seconda è di aver individuato una “soluzione semplice” per consentire a una Bcc di trasformarsi senza perdere la totalità delle riserve: lo “schema Rossi” permette a una Bcc di scorporare l’azienda bancaria in una nuova Spa. In questo modo “il patrimonio resterebbe in capo alla Bcc-madre e quindi non si violerebbe il vincolo costituzionale che ne prevede l’indivisibilità in nome della continuità generazionale. La nuova banca, controllata al 100% dalla Bcc-madre potrebbe operare in proprio in virtù dei mezzi propri rappresentati dal patrimonio a monte”. Il terzo elemento riferito dall’articolo è che “il lavoro di Rossi è stato accolto nella forma e nella sostanza da Palazzo Chigi ed è diventato la norma aggiuntiva che Matteo Renzi ha introdotto nel vecchio testo appena prima del Consiglio dei ministri” che mercoledì sera ha varato la riforma.



Sul primo punto non sembrano esservi specifici commenti a margine. Il secondo punto solleva invece perplessità di merito. Lo scorporo dell’azienda bancaria da una cooperativa (che rimarrebbe in funzione di holding a controllo totalitario) è stato escluso dalla riforma delle Popolari varata un anno fa dal governo: un provvedimento di cui la riforma delle Bcc è in qualche modo seguito “gemello”. La way-out dello scorporo è stata preclusa alle Popolari, chiaramente, per evitare elusioni della sostanza della riforma (esattamente come il senso ultimo della riforma Bcc è il consolidamento in un gruppo unico e lo sfoltimento dei “piccoli banchieri”, secondo un obiettivo esplicitato dallo stesso Renzi). Ma non solo: lo schema di proprietà-governance duale era già stato adottato dalla Popolare di Spoleto (con la cooperativa nel ruolo di azionista di controllo di una Spa bancaria e Mps come partner di minoranza) e ha condotto a esiti disastrosi.

Giusto ieri la Procura di Spoleto ha annunciato la richiesta di archiviazione per il clamoroso avviso di garanzia che poche settimane fa aveva raggiunto lo stesso Governatore della Banca d’Italia per le controversie legate alla vendita-salvataggio finale della Spoleto. Saremo in ogni caso curiosi di vedere se la Vigilanza Bankitalia (oggi parte del Single Supervising Mechanism gestito dalla Bce) darà il benestare a uno schema in cui il patrimonio è presso la coop-holding (e verrebbe depauperato dall’affrancamento al 20%) e l’attività bancaria è svolta presso una Spa controllata.

Anche il terzo passaggio non convince del tutto: sul terreno più squisitamente istituzionale, di funzionamento corrente della democrazia italiana. Perché una grande riforma-Paese – in questa fase drammatica per le banche italiane – viene corretta in corsa all’ultimo istante da un suggerimento (pur autorevole) di un ex senatore “che ha studiato il problema” per conto di una singola Bcc? E la Bcc è comunque quella in cui lavora il padre del sottosegretario alla Presidenza, colui che predispone i testi finali delle riforme per il Consiglio dei ministri. E il lavoro fatto nei mesi precedenti dalle Bcc e dalla loro Federazione, dalla Vigilanza bancaria, dal ministero dell’Economia? Tutto messo in discussione da una “norma aggiuntiva” trasmessa attraverso una singolare fast track direttamente al premier, bypassando tutti gli altri soggetti e oggetti della riforma.

Perché spendere un anno a premere sulle 370 Bcc per costruire un “Credit Agricole italiano” e poi aprire all’ultimo una via di fuga ad aziendam? Non sembra questa la “svolta” nella politica creditizia annunciata da Renzi e dal Pd proprio attorno alla riforma Bcc.