Tanto tuonò che uscì il sole. Come ampiamente preventivabile, il tanto strombazzato accordo petrolifero tra Russia e Arabia Saudita si è rivelato in realtà un brodino incapace di scuotere un mercato in piena saturazione da offerta e mosso in gran parte da speculazione sui futures guidata da algoritmi, ovvero cani di Pavlov programmati per far soldi su brevi oscillazioni. Non è un caso che subito dopo l’annuncio dell’accordo, il barile di Wti, che nelle prime ore di contrattazione era balzato fino a 31,53 dollari, sia sceso in pochi minuti sotto quota 30 dollari, a 29,9 al barile.
Come mai? Semplice, dopo i colloqui in Qatar, Arabia Saudita e Russia hanno deciso di congelare l’estrazione di petrolio ai livelli di produzione di gennaio, un freezing che sarà «adeguato», tanto che Ryad intende ancora soddisfare la domanda dei propri clienti, ha detto il ministro del petrolio saudita, Ali Al-Naimi, dopo i colloqui con il ministro russo per l’energia, Alexander Novak. Inoltre, anche Qatar e Venezuela hanno accettato di partecipare al congelamento. Troppo poco. E infatti Olivier Jakob, responsabile del team di esperti sul petrolio di Petromatrix Gmbh, in una nota ai clienti prima che la riunione si concludesse ha scritto che «un congelamento non creerebbe tuttavia un’inversione a U del trend discendente dei prezzi, ma solo una base migliore per il recupero dei valori nella seconda metà dell’anno».
Stando all’Agenzia internazionale per l’energia, l’Arabia Saudita ha prodotto 10,2 milioni di barili al giorno nel mese di gennaio, sotto il più recente picco di 10,5 milioni registrato nel giugno 2015, mentre la Russia ha prodotto circa 10,9 milioni di barili al giorno nello stesso mese, un record post-sovietico, sempre stando i dati ufficiali. Insomma, quanto deciso in Qatar ieri mattina non è altro che il congelamento di quote record, non un taglio della produzione, ma anche questa scelta nasconde dei “trucchi contabili” che il mercato ha immediatamente smascherato.
La Russia ha infatti detto sì all’accordo in concomitanza con la quasi sparizione della crescita di output garantita dai nuovi giacimenti siberiani, tanto che la Iea si aspetta che la produzione di Mosca calerà di 160mila barili al giorno nel corso di quest’anno. Insomma, in altre parole, Russia e Arabia hanno deciso di continuare a pompare ai livelli massimi e alcune considerazioni logistiche potrebbero forzare Mosca a ridurre la produzione in risposta a un qualsiasi evento. Il mercato aveva bisogno di altro, ovvero di un taglio netto e concordato della produzione, l’unica arma che può intaccare la sovra-produzione imperante, visto che al netto dell’inutile patto di ieri viviamo in un mondo con surplus giornaliero di 2 milioni di barili. In queste condizioni, difficile innescare un rally rialzista.
Inoltre, ci sono due variabili. La prima, capire se altre nazioni decideranno di seguire l’esempio ed entrare a far parte del cartello del congelamento. La seconda, il timing, visto che se la prima avrà un epilogo positivo, gli eventuali effetti rialzisti non si paleseranno – a meno di forti shock geopolitici – prima dell’estate, ovvero la stagione in cui l’Arabia raggiunge il picco di domanda interna e quindi la produzione giornaliera aumenta. Il Qatar, di suo, effettuerà il monitoraggio della produzione in base gli accordi appena raggiunti, ha confermato in conferenza stampa il locale ministro dell’Energia, Mohammad bin Saleh al-Sada.
A distanza di oltre un anno, da quando l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio ha deciso per la prima volta di non tagliare la produzione, l’oro nero resta circa il 70% sotto il picco registrato nel 2014. L’offerta supera ancora la domanda e le riserve mondiali di petrolio continuano a gonfiarsi, potenzialmente spingendo i prezzi al di sotto di 20 dollari al barile, stando all’ultimo report di Goldman Sachs. A uccidere nella culla l’accordo, poi, il fatto che ne restano fuori sia l’Iran, tornato sulla piazza internazionale da qualche settimana dopo la rimozione delle sanzioni sull’export e intenzionato a non tagliare la produzione, ma, anzi, a massimizzarla per cercare di recuperare in tempi rapidi le quote di mercato perse, ma anche gli Stati Uniti, diventati nel frattempo il primo produttore di oro nero al mondo attraverso la rivoluzione dello shale oil, il cui mercato però è proprio quello che sta mandando i segnali più inquietanti.
«L’Iran non abbandonerà la sua quota di produzione nel mercato del petrolio», ha dichiarato il ministro del petrolio, Bijan Zanganeh, all’agenzia governativa, il quale ha proseguito ricordando che «ciò che è importante è, in primo luogo, che il mercato del petrolio è ora di fronte un eccesso di offerta; in secondo luogo che l’Iran non ritira la sua quota». La scoperta dell’acqua calda in salsa persiana, insomma. In compenso, Teheran resta strategicamente aperta al dialogo, visto che sempre Bijan Zanganeh si è detto «pronto per la discussione con gli altri paesi produttori. C’è spazio per considerare la questione». Ma, come anticipavo, è paradossalmente l’America a dirci di più. Per l’esattezza i due grafici a fondo pagina, il primo dei quali ci mostra la faccia più oscura della saturazione in atto: si tratta della differenza delle scorte Usa al 22 gennaio scorso contro la media dei cinque anni precedenti. In parole povere, anche il sistema di stoccaggio molto flessibile e adattabile degli Stati Uniti sta raggiungendo il suo limite massimo. Il secondo, invece, mostra quale potrebbe essere la dinamica nel breve termine, visto che già oggi le principali raffinerie Usa stanno scaricando petrolio sul mercato. Stando a dati della U.S. Energy Information Administration, le scorte a Cushing, l’hub di consegna in Oklahoma che la scorsa settimana ha toccato il livello record di 64,7 milioni di barili, sono solo a 8 milioni di barili dal loro limite teorico, di fatto aprendo uno scenario dioverflow già per le prossime settimane e non mesi.
Il mercato potrà reggere una dinamica di ulteriore saturazione in attesa che arrivi l’estate e salga la domanda saudita, con l’Iran che nel frattempo avrà quasi raddoppiato la sua produzione giornaliera? Lo stoccaggio è ai massimi da una decade, con quello americano che all’inizio dello scorso novembre ha toccato i 487 milioni di barili, ma che solo a metà gennaio aveva sfondato il record massimo da 80 anni di 490 milioni. Su dati ufficiali dell’Eia, oggi la capacità di stoccaggio operativa statunitense è oltre al 60% di riempimento. Certo, c’è ancora spazio, ma meno di quanto sembri, visto che costruire nuovi siti richiede tempi molto lunghi.
E globalmente la questione non è molto migliore, visto che sempre su dati Iea, solo nel 2015 si è aggiunto alle scorte mondiali 1 miliardo di barili, qualcosa che vede lo stoccaggio nei Paesi Ocse superare la media a 5 anni di 210 milioni di barili. Un mare di petrolio che rischia di tracimare e di cui l’accordo di Doha rappresenta solo poche gocce.
Non è un caso che lunedì, in anticipo di ventiquattro ore sul meeting arabo-russo, gli Emirati Arabi Uniti, altro produttore del Golfo, abbiano offerto petrolio gratis all’India in cambio di un accordo proprio sullo stoccaggio del greggio nelle strutture sotterranee che Nuova Delhi ha in programmi di costruire, sintomo non solo che la saturazione peggiorerà, ma anche che questo trend pare destinato a durare ancora a lungo. La compagnia petrolifera nazionale, Adnoc, ha quindi chiuso in anticipo il contratto, in base al quale l’India garantisce lo stoccaggio del greggio degli Emirati e in cambio può tenersene i due terzi senza pagare: un colpaccio per Nuova Delhi, Paese che è quasi completamente dipendente dall’import per le proprie necessità petrolifere. Il nuovo sistema di stoccaggio sotterraneo indiano sarà in grado di contenere fino a un massimo di 5,33 milioni di barili di greggio, diventando di fatto un baluardo contro gli shock sui prezzi e le variazioni sull’offerta a livello mondiale. Adnoc intende utilizzare la metà della capienza del nuovo impianto di Mangalore, fissata al massimo di 1,5 milioni di tonnellate: si tratta quindi di 0,75 milioni di tonnellate, pari a 6 milioni di barili e in base all’accordo su questo sito, 0,5 milioni diventeranno indiani gratuitamente.
Sono questi numeri e questi accordi emergenziali da guardare per capire dove andrà il prezzo del petrolio, non le riunioni farsa come quella di ieri. Tanto più che analisti indipendenti hanno dichiarato che se non sarà aumentata e in fretta la capacità di stoccaggio a livello globale, a questi ritmi il prezzo potrebbe arrivare in area 10 dollari al barile. A meno che un evento geopolitico di grande rilievo non faccia schizzare al rialzo le quotazioni per il panico psicologico che potrebbe fomentare. E penso che l’Iran sia l’indiziato principale in tal senso.