Grande spazio nelle notizie dei primi due mesi dell’anno per le banche italiane, e non solo per l’andamento da yo-yo delle quotazioni di Borsa. Siamo in una fase delicata e caotica del processo di ristrutturazione del sistema bancario nazionale, pressato dalla gestione dell’enorme contenzioso fatto di sofferenze e di inadempienze (circa 330 miliardi lordi) e dalla spinta riformistica imposta per legge dal governo Renzi.
Sono quattro i punti sensibili di questo percorso che, non essendo solo tecnico ma legato alla politica e ai rapporti con l’Ue, contribuiscono ad alimentare decisioni e polemiche. Una simultanea convergenza che non facilita la fluidità della ristrutturazione.
La riforma delle banche popolari pensata all’inizio del 2015 per imporre la trasformazione in spa e facilitare il processo di aggregazione, avversata da una parte importante dei supporter storici del voto capitario, varata per legge dal giugno 2015, sta cominciando a produrre i primi effetti concreti. Banca Popolare di Milano e Banco Popolare sono avviate a sancire la prima operazione di fusione, sull’asse lombardo-veneto, mentre imperversano ipotesi sui movimenti di Ubi, di Bper e delle due valtellinesi Creval e Banca Popolare di Sondrio.
Come promesso, il governo ha approvato nei giorni scorsi anche il decreto che costringerà quasi 400 banche di credito cooperativo a scegliere tra una difficile indipendenza (solo se il patrimonio supera i 200 milioni) oppure aggregarsi sotto una o più holding del credito cooperativo. Un’altra riforma completamente avversata dalle piccole casse, negoziata lungamente con i vertici di Federcasse, i quali sono rimasti sorpresi e delusi a giudicare dalle prime reazioni.
Il nodo dello smaltimento delle sofferenze, che tocca l’intero sistema, ha avuto un primo epilogo giudicato poco promettente: l’idea di una bad bank italiana cullata per due anni dal ministro Padoan si è infranta sugli scogli della Commissione europea. Bruxelles ha permesso solo la concessione di una garanzia statale a condizioni di mercato (priva di sussidio) e solo per agevolare un complesso meccanismo di cessione delle sofferenze attraverso operazioni finanziarie di cartolarizzazione. Garanzia ridotta e cartolarizzazione non bastano ad avvicinare il prezzo tra la valutazione delle sofferenze fatta da investitori-specializzati e i valori netti con cui le banche contabilizzano i 330 miliardi di prestiti di difficile esigibilità. Sconfitti in sede europea, i nostri governanti stanno predisponendo nuovi interventi “domestici” ispirati ad accelerare il recupero dei crediti solo a favore delle banche e non dei normali creditori. Una seconda gettata di norme che ritoccano diritto fallimentare e procedure è in arrivo.
Ultimo nodo politico-bancario è la gestione delle crisi bancarie. L’adesione alla direttiva comunitaria Brrd sulla gestione delle crisi bancarie ha costretto l’Italia al precipitoso salvataggio di 4 banche regionali in dissesto e alle polemiche che sono seguite, a causa del coinvolgimento dei risparmiatori privati sottoscrittori di obbligazioni della banca il cui valore si è azzerato. L’effetto della decisione, obbligata ma tardiva, è stato devastante per il sistema bancario: la sfiducia dei depositanti – risvegliati da un lungo sonno sul concetto di rischio e di solidità delle banche – ha travolto tutto il sistema bancario (banche solidissime e banche zoppicanti), ha provocato migrazioni di risparmi verso lidi più sicuri e costretto le stesse banche a pagare il conto del salvataggio pur di evitare che il termine “fallimento bancario” alimentasse altro panico. Operazione fallita sia sul fronte del risparmio, sia nella difesa della non fallibilità delle banche, abbattuta definitivamente alcuni giorni fa dalla sentenza del tribunale di Arezzo su Banca Etruria, che avvia procedimenti penali per bancarotta, un termine tragicamente onomatopeico.
I quattro snodi del maxi-progetto di riforma del sistema bancario cullato dal governo portano con sé molti rischi e poche certezze. La finalità sintetizzata dal premier con la frase “meno banche ma più solide e trasparenti” induce forme non sempre volontarie di aggregazione che nel breve termine si possono tradurre nell’introversione del sistema. Popolari e Bcc si stanno per misurare con i tipici processi politici interni alle fusioni bancarie, che in passato si sono sempre tradotti in distrazioni e disservizi peggiorando il rapporto con la clientela. Ne sono un primo assaggio le discussioni tra Bpm e Banco Popolare sul numero di anni in cui la prima resterà indipendente (ipotesi gradita al sindacato dei bancari) o sul numero e la localizzazione delle direzioni generali.
Le aggregazioni non porteranno vantaggi immediati perché lo stallo avviene nell’epoca in cui i margini dell’attività bancaria sono molto ridotti, la fedeltà dei clienti messa in discussione e il modello basato su molte filiali e molte persone è crollato definitivamente anche sotto i colpi di nuovi concorrenti che offrono servizi più efficienti a costo inferiore utilizzando tecnologia e connettività. Nel medio termine cresce invece la probabilità che i grandi gruppi bancari italiani modifichino il tipo di attività avvicinandosi ai modelli delle grandi banche europee per i quali l’intermediazione verso famiglie e piccole imprese è molto meno remunerativa e più rischiosa rispetto alle attività di trading e nell’investment banking. Tracce di questa impostazione sono recentemente apparse nelle parole dello stesso Renzi, forse suggerite dai suoi consiglieri.
Aggiungiamo che la trasformazione in spa e la quotazione delle due popolari venete non quotate è particolarmente delicata, in previsione di valori azionari lontani dai quelli teorici a cui le azioni della banca sono state offerte o imposte alla clientela e di nuove azioni legali. Questo rischio sul percorso potrebbe spiegare l’insistenza italiana a Bruxelles per ritardare le regole del bail-in su nuovi salvataggi bancari, pericolose per un sistema che ha collocato troppi titoli obbligazionari propri a clienti non consapevoli del rischio.
Infine, anche lo smaltimento delle sofferenze, persa l’occasione di una bad bank sul modello spagnolo e irlandese, passa ora per la velocizzazione delle procedure legali di recupero delle garanzie saltando anche gli stessi tribunali. Un’opzione seriamente considerata dal governo che metterebbe le banche in condizione di diventare automaticamente proprietarie degli immobili ipotecati senza attendere il consenso di un giudice e le aste fallimentari. Un’ipotesi che, pur avvicinando l’Italia ad altre giurisdizioni estere, fa intravedere una profonda rottura nei rapporti sociali con conseguenze non prevedibili.
In sostanza, ciò che lascia perplessi nella riforma delle banche italiane, ispirata dal governo alla sola crescita dimensionale e allo sblocco degli immobili a garanzia delle sofferenze, è che il ritorno a una redditività prossima ai livelli delle maggiori banche europee (dando per scontato il capitale minimo) potrebbe arrivare in tempi non brevi e a scapito del finanziamento della parte prevalente del Paese: famiglie, piccoli operatori economici e piccole imprese tra loro strettamente connesse. Un obiettivo che sarebbe possibile se famiglie e imprese non fossero pesantemente schiacciate dalla fiscalità necessaria a mantenere l’apparato statale, e se il debito pubblico dello Stato non fosse così elevato da rappresentare il motivo di scontri e sconfitte a Bruxelles e una minaccia di ulteriori requisiti di capitale per le banche che lo hanno sottoscritto in dosi eccessive. Sofferenze e fallimenti, soprattutto nelle micro-imprese, sono il frutto malato di un crollo della domanda interna e di indifferenza ai problemi dei piccoli che non hanno trovato risposte anche in questo governo.
Solo se l’Italia presentasse tassi solidi di crescita e riduzione dell’imposizione fiscale l’operazione sul sistema bancario avrebbe probabilità di successo. Banche forti in un Paese fragile sono più sogno che realtà. Il calo della produttività, della produzione industriale, degli investimenti sono responsabilità anche di questo governo che in 24 mesi ha fatto molto, ma non ha trovato ricette per rilanciare l’economia.
Quali sono le alternative alla crescita dimensionale delle banche? Tenendo in debito conto la frammentazione non modificabile del nostro sistema industriale, il ruolo importante del risparmio privato, le banche dovrebbero saltare una generazione. Dovrebbero scegliere un modello di servizio totalmente diverso, gettando alle ortiche dotazioni informatiche obsolete insieme alle filiali, sostituendole con un’idea snella di smart-banking digitalizzato e diffuso, comprendendo e cavalcando le innovazioni nei servizi finanziari che si sono già manifestate in Usa e Uk e posizionandosi nel futuro senza rincorrere inutilmente modelli di gigantismo bancario. Una scelta fuori dagli schemi e purtroppo impensabile in un settore malato di conservazione del passato a cui non riesce di sposare un’idea di leadership con l’innovazione.