Ma che succede ai big del web? Tolto Google, che va bene, e sospendendo il giudizio su Facebook, il resto fa paura. Yahoo va male; Twitter malissimo; Linkedin vacilla; Amazon è un gigante mondiale ma guadagna pochissimo: per fare 600 milioni di dollari di utile deve fatturare 100 miliardi (quindi guadagna la miseria dello 0,6%!) e inventarsi mestieri vecchi più del mondo come le consegne a domicilio della spesa alimentare per far finta di innovare; Netflix, che a sentire i cantori del web dovrebbe terrorizzare i network televisivi tradizionali di tutto il mondo, rende l’1,4%. Roba che a Murdoch o allo stesso Berlusconi gli fa il solletico. Se non è un’altra bolla, anzi superbolla, del web, cos’è?
È soltanto il trionfo dello “storytelling” di un’era digitale che sta concentrando la ricchezza in un numero sempre più ristretto di mani, e lo sta facendo al prezzo altissimo di distruggerla a carico di un esercito di persone che i business digital “disruptive” tentano di mandare fuori mercato, dai tassisti agli interpreti, dai giornalisti ai librai. In parte riuscendoci, in parte anche no. Uno “storytelling” che millanta credito, dice cioè che le aziende web che oggi non rendono domani renderanno oro perché acquisiranno tutti noi come clienti spendenti, e che quindi è giusto investirci, e così il rapporto tra i prezzi borsistici di queste discutibili “stelle digitali” e gli utili che producono – se e quando li producono! – diventa insostenibile.
Due anni fa il price-earnings (appunto il rapporto prezzo-utile) di Amazon e Netflix era di 683 volte per la prima e 198 volte per la seconda. Una follia totale. Lo stesso rapporto per Google è di circa 30 volte; per Microsoft o Apple – due aziende digitali ma anche in parte manifatturiere – viaggia sulle 20 volte: dimensioni “normali”, rassicuranti.
Il comun denominatore delle strategie delle digital-chips drogate da quest’attesa messianica dei loro utili sempre futuri è che tutte si descrivono come “grande sorelle” totalizzanti per la vita dei loro utenti, come se gli ultimi vent’anni di cronache digitali non avessero già ampiamente dimostrato che nessun big di Internet – salvo Google – è riuscito finora a diventare “fornitore totale” dei suoi utenti. Chi va su Facebook a socializzare con i suoi amici non è detto che vi resti per cercare voli o mozzarelle da comprare, o per vedersi film o ascoltarvi musica; e chi vede film su Netflix non si capisce perché dovrebbe utilizzare la stessa piattaforma per telefonare; chi compra orologi su Amazon non è chiaro quando e come decida di usarla anche per telefonare e via discorrendo. Non ha mai funzionato, non funzionerà. E intanto i prezzi di Borsa salgono, salgono, si gonfiano, si gonfiano, e illudono.
Poi, di quando in quando, qualche scossone. Yahoo, poveraccia, ha perso la sua battaglia tra i motori di ricerca, ma un po’ di memoria dovrebbe farci tornare in mente altri nomi ancora celebri nel settore dieci anni fa – da Altavista a Lycos – che sono ormai archeologia. Twitter ha stufato tutti, tranne giornalisti e politici, con la regola demenziale dei 140 caratteri e basta più; non solo cresce meno e in molti mercati non cresce affatto, ma soprattutto non fa soldi con i suoi pur notevoli 300 milioni di utenti.
Adesso è la volta di Linkedin, che sembrava il social network “professionale” in grado di disintermediare i siti di ricerca di personale e gli head-hunter (cacciatori di teste), ma sta segnando il passo perché il criterio della meritocrazia per autocooptazione reciproca tra amici genera mostri, gente che ti “conferma competenze” che non hai mai avuto, perfetti imbecilli che si autopresentano come Pico della Mirandola, una marea montante di fuffa dove si fa fatica a distinguere un curriculum scritto con buon senso da una sfilza di baggianate. E così con 3 miliardi di fatturato nel 2015, anche il cosiddetto social network professionale si riduce a perdere quattrini e dimezzare la propria capitalizzazione di Borsa: cosa ci sia di così professionale in simili debacle non si capisce.
Vi ricordate Periscope, la “App” per le dirette video lanciata un anno fa da Twitter? Bravi, perché nessuno se la ricorda più. Va di moda Instagram, in compenso: perché guardare le figure è più facile e perché la marchetta commerciale vi imperversa, peccato che poi nessuno compri niente. E occhio a Snapshot: il sistema di messaggistica che dopo 5 secondi cancella il messaggino. Per mandare foto porno, soluzioni per gli esami e maleparole funziona alla grande. Ecco, forse questo sì che è un social destinato a durare.