Mentre scade il secondo anno di governo, per Matteo Renzi cominciano i mesi più duri: la Legge di stabilità, il rischio che Bruxelles tiri le redini, l’economia che non va, una maggioranza incerta e divisa sulle unioni civili, le troppe trappole parlamentari, le lentezze istituzionali (la riforma del Senato non è ancora legge), la certezza che con la primavera cominceranno gli sbarchi di migranti e le tragedie in mare, fino ad arrivare alle elezioni municipali, un appuntamento davvero rischioso. Poi a ottobre il referendum sul quale Renzi si gioca la poltrona. E scusate se è poco.
Tutti ostacoli duri da superare, ma quello per ora insormontabile riguarda la crescita economica, troppo debole, al punto da poter concludere che si tratta di un obiettivo mancato. L’Ocse ha ridotto le previsioni all’1% (il governo stima ancora 1,6%), ma quel che più preoccupa è il passo del gambero: l’anno si è aperto in frenata, non con l’accelerazione sperata. Come mai, che cosa non ha funzionato?
Il segnale peggiore viene dalla produzione. L’industria non tira, le imprese non investono, c’è stato un rimbalzo per ricostituire le scorte prosciugate da sette anni di recessione, ma non c’è espansione. Alcuni settori vanno bene, sia chiaro, per esempio l’automobile e la farmaceutica, entrambi importanti per occupati (soprattutto l’auto) e valore aggiunto. Ma non si è ripresa l’edilizia che è da sempre e ovunque il volano fondamentale di ogni svolta congiunturale.
L’industria è stata liberata da un laccio come l’articolo 18, grazie al Jobs act, ma la maggiore libertà di licenziare non è la molla sperata. L’occupazione aumenta solo grazie agli incentivi che fra un anno verranno riassorbiti. E i posti di lavoro fissi hanno compensato la riduzione di quelli precari o flessibili, quindi il saldo è solo minimamente positivo. Lo ha detto anche la Banca d’Italia che francamente non può essere messa tra i gufi. È vero che Renzi se l’è presa con Ignazio Visco per la vicenda delle banchette del centro Italia (soprattutto la Etruria), ma via Nazionale ha promosso le finanziarie firmate Renzi e Padoan. Con due critiche: una all’abolizione delle imposte sulla prima casa e l’altra alla emarginazione della spending review. Due notazioni importanti, ma niente a che vedere con le bacchettate riservate in passato ad altre leggi finanziarie.
Bisogna concludere dunque che la spinta alla crescita attraverso la politica dell’offerta è fallita? Non del tutto. Diciamo piuttosto che è mancata una vera politica della domanda, quindi la manovra economica è monca, sbilanciata. Gli 80 euro potevano essere un buon inizio se poi fosse seguita una riduzione della pressione fiscale permanente, anche se prudente e pluriennale. Ma così non è stato. Meno imposte sul patrimonio non hanno lo stesso immediato impatto sui consumi di meno imposte sul reddito. E in ogni caso è entrata in gioco un’altra componente spesso sottovalutata: la paura.
Gli economisti parlano di comportamenti cautelativi da parte di consumatori e risparmiatori. In effetti sono scelte razionali, anche se alla lunga controproducenti. Razionali di fronte ai rischi esterni e a un debito pubblico che continua a salire suscitando il timore che prima o poi arriverà un’altra mazzata fiscale, magari un’imposta patrimoniale sia sulla ricchezza immobiliare che su quella finanziaria. Controproducenti perché alimentano il circolo vizioso della stagnazione.
Il debito resta il grande buco nero, aumenta in quantità e in rapporto al prodotto lordo. Il mantra del governo è che può scendere solo con una maggiore crescita. Ci vogliono almeno due punti in termini nominali, cioè inflazione compresa, e ancora non ci siamo. Ma in ogni caso va fermato l’incremento in termini assoluti, altrimenti è sempre la stessa solfa. Così come è sempre la stessa storia con le entrate e le uscite dello Stato: una rincorsa infinita che ha portato l’Italia a battere i record sia della pressione fiscale, sia della spesa.
Produzione industriale (che implica più consumi e investimenti), occupazione, debito pubblico. Ecco i tre vuoti da colmare. Renzi pensa di farlo con la flessibilità, strappando all’Ue qualche decimo di disavanzo in più. Ma con una manciata di euro può davvero spingere la domanda interna e creare posti di lavoro non solo sostitutivi? C’è da dubitarne. Soprattutto non ridurrà il debito, suscitando così la reazione negativa dei mercati finanziari non solo degli eurocrati di Bruxelles. Se aggiungiamo la debolezza delle banche che assorbono denaro dalla Bce, ma non lo rigirano sotto forma di prestiti alle famiglie e alle imprese, il quadro si fa ancor più nero.
L’Italia che non fa figli, che non cresce, che è bloccata nella sua trappola della liquidità, è un Giappone in piccolo. Non sarà la politica monetaria a spingerla fuori dalla palude, come dimostra lo stesso esempio giapponese. Trovare la via d’uscita non è facile, bisogna diffidare delle ricette troppo semplici, ma diventa impossibile se Renzi pensa di farlo a palazzo Chigi, davanti a una pizza con quattro amici.