Quando questo articolo uscirà, la stampa cartacea quotidiana avrà inondato i lettori di servizi, analisi e commenti sui risultati del Consiglio europeo del 18-19 febbraio, un Consiglio che ha, per molti aspetti, rivoluzionato l’assetto attuale e le prospettive future dell’Unione europea. Mi auguro che almeno una delle testate con maggiore foliazione abbia riportato i testi ufficiali, che ribadiscono ben tre volte che gli accordi raggiunti “sono perfettamente compatibili con i Trattati”. Non è questa la sede per chiosare punto per punto gli accordi o anche solamente i loro lineamenti, anche in quanto è stato abbondantemente già fatto da numerosi organi d’informazione. Occorre, però, ricordare il contesto in cui si è svolto un Consiglio dei Capi di Stato e di Governo cruciale per il futuro dell’ Ue, con un lungo ordine del giorno con tali e tante questioni sul tavolo da rendere difficile prevederne l’esito: le pressioni esterne e interne dei migranti e dei movimenti populistici, la chiusura di fatto di alcune frontiere che potrebbe preludere alla fine dell’accordo di Schengen, la stagnazione dell’economia reale (nonostante le vitamine monetarie fornite dalla Banca centrale europea), le fibrillazioni dei mercati specialmente sui titoli bancari europei, la richiesta (da parte di più Stati membri) d’interpretazioni “flessibili” del Trattato di Maastricht e del Fiscal compact, la possibile uscita della Grecia dall’Ue e la definizione di uno status “speciale” per la Gran Bretagna. In un quadro, poi, di guerra guerreggiata alle frontiere europee che, secondo il Segretario di Stato americano, potrebbe essere l’inizio di una Terza guerra mondiale e, secondo la sua controparte russa, quello di una nuova “Guerra fredda”. Infine, senza un quadro chiaro delle alleanze, tra gli Stati dell’Ue o un minimo comun denominatore per un “compromesso-cornice” tale da trovare soluzioni su tutti questi temi.



In altra sede ho sostenuto che ce sarebbe voluta una “chiave inglese”, lo strumento per serrare i bulloni e consentire a un’auto con le ruote in panne di mettersi in condizioni di ripartire oppure per allentarli se sono troppo stretti e impediscono il funzionamento di una protesi. Il fatto stesso che si sia giunti a un compromesso almeno sui due punti cruciali – la posizione futura della Gran Bretagna nell’Ue e un’azione comune nei confronti dell’immigrazione – è la prova della resilience (resistenza, forza) dell’Ue costruita sulle basi del Trattato di Roma del 26 marzo 1957. È anche, però, la dimostrazione che l’Ue è in grado di adattarsi al cambiamento sia del contesto internazionale che delle condizioni interne. Quindi, un’Ue ben differente dalla foresta pietrificata di burocrati incartapecoriti o che diventano tali solamente pochi mesi dopo la vittoria dei concorsi che hanno dato un “posto a vita” nelle istituzioni europee, con stipendi e pensioni da favola.



La “chiave inglese” non è stata l’intesa sui migranti, una misura necessaria per affrontare una questione specifica e che potrà essere migliorato nel tempo man mano che la situazione evolve. Lo è stato il “grande compromesso” tra il Premier britannico David Cameron e il Presidente Ue Donald Tusk. Già altri Stati dell’Ue chiedono un trattamento analogo a quello previsto, nel compromesso, per la Gran Bretagna.

Naturalmente il movimento federalista europeo è in lacrime: si profila per l’Europa un futuro molto differente da quello sognato da Eugenio Colorni, Altiero Spinelli e Ursula Hirschmann nel Manifesto di Ventotene. Ma il Manifesto contemplava una federazione europea tra i Paesi che si bagnavano sulle due rive del Reno (a cui si sarebbero aggiunti pochi altri, tra cui, con grande lungimiranza, l’Italia) allo scopo principalmente di porre fine alle guerre tra Francia e Germania che avevano insanguinato l’Europa per secoli, specialmente nella fase dell’industrializzazione trionfante quando fu chiara l’importanza del controllo dei giacimenti della Ruhr. Ora il mondo è drasticamente cambiato. Si delinea un’Europa quasi confederale in cui le Nazioni (ossia gli Stati) riacquistano una centralità che all’epoca della firma del Trattato di Roma (e di quelli su Ceca ed Euratom) sembrava che avessero ceduto, insieme a parte delle loro funzioni, alle istituzioni “tecniche” europee.



Si tratterebbe di un’Ue quasi confederale con i poteri della Commissione fortemente ridimensionati ma con maggiori responsabilità, e quindi flessibilità, dei singoli Stati e dei loro Parlamenti, che, a maggioranza qualificata, potrebbero modificare le normative Ue. Ciò comporterebbe anche rivedere parametri e vincoli definiti un quarto di secolo fa per l’unione monetaria sull’assunto che l’area dell’euro avrebbe avuto un tasso di crescita medio del 3% l’anno nel lungo termine. La “chiave inglese” servirebbe per allentare alcuni bulloni e per serrarne altri. Quelli in particolare dell’unione monetaria (perché nessuno vuole tornare alle vecchie monete). Ciò comporta il completamento dell’unione bancaria con la garanzia comune sui depositi in conto corrente (e una revisione del bail-in) e una conferenza dei Capi di Stato e di Governo e dei Ministri dell’Economia e delle Finanze, nonché del Sistema europeo di banche centrali (Sebc), per una ristrutturazione concordata del debito sovrano, al tempo stesso freno dell’economia reale e determinante delle tensioni sui mercati e sulle Borse.

Occorre porsi la domanda di fondo: sarà un’Ue più forte o più debole nel contesto mondiale? L’ex-direttore diThe Economist Bill Emmott è un uomo di certezze: dichiara a destra e a manca che sarà un’Europa più debole. Io sono un uomo di dubbi: dipende da come le Nazioni e gli Stati europei sapranno carpire le finestre di opportunità che ora si presentano loro. Tengo sulla mia scrivania un libro del 2001 di Frank Vibert, direttore dell’European Policy Forum Europe Simple, Europe Strong – The Future of European Governance. La “chiave inglese” deve ora essere utilizzata per un’Europa più semplice, più vicina ai cittadini e da loro meglio compresa e tale quindi da diventare più forte di quello che è.