Dunque, partiamo dalla notizia più importante, quella che per la grande stampa asservita ai poteri europeisti rappresenta solo un noioso intralcio o un tecnicismo arcaico: il popolo britannico voterà il prossimo 23 giugno per decidere se rimanere nell’Ue o andarsene. Il popolo, non governanti o banchieri. L’esecutivo conservatore di David Cameron, forte dell’accordo strappato a Bruxelles venerdì notte, ha dichiarato che farà campagna a favore della permanenza, ma a ministri e sottosegretari sarà garantita libertà di coscienza, tanto che già sei di loro hanno detto che sceglieranno l’opzione Brexit nelle urne. Ora, vediamo un po’ di approfondire quanto deciso a Bruxelles.
La Gran Bretagna ha infatti ottenuto che «al momento della prossima revisione dei Trattati verrà inserito un paragrafo in cui sarà esplicitamente scritto che Londra è esentata dal concetto di ever closer Union («Unione sempre più stretta», il principio su cui si fonda l’Europa sin dal Trattato di Roma del 1957)». Inoltre, il governo del Regno Unito potrà attivare per 7 anni il cosiddetto “freno d’emergenza” per l’accesso dei benefici al welfare. Nel testo dell’accordo con l’Ue è precisato che la limitazione si applicherà «a tutti i lavoratori nuovi arrivati per un periodo di 7 anni». L’accesso ai benefici è graduale nell’arco di quattro anni, mentre la richiesta di Cameron era di 7 anni, rinnovabili per due periodi di 3 anni ciascuno. «Ho negoziato un accordo per dare al Regno Unito uno speciale status nella Ue. Lo sosterrò domani al consiglio dei ministri», ha twittato David Cameron, il quale sabato ha tenuto la sua conferenza stampa, nel corso della quale ha appunto ufficializzato la data del 23 giugno per la consultazione popolare.
L’accordo tra Ue e Gran Bretagna entrerà in vigore solo quando il governo britannico comunicherà che il referendum avrà confermato la volontà di restare nell’Ue, visto che nel testo dell’accordo è scritto a chiare lettere che l’intero pacchetto di misure, in caso contrario, «cesserà di esistere». Non poco, occorre ammetterlo, nonostante gli euroscettici più estremi come l’Ukip di Nigel Farage abbiano già bollato l’accordo come «patetico». Il problema è capire quale sia la posta in palio, per Londra innanzitutto ma anche per l’Europa: per Germania e Francia, infatti, il Brexit rappresenta un’occasione, più che una sfida. E questo nonostante le falsa preoccupazione messa in campo da Hollande e Merkel, la quale era talmente in ansia per la trattativa da aver sfruttato una pausa dei lavori per uscire dal palazzo e andare a comprare le patatine fritte in un chiosco: forse la tensione le mette fame. O, forse, a Berlino hanno già un’agenda precisa e poco sono interessati ai movimenti a latere.
Il grafico a fondo pagina ci mostra come i servizi finanziari pesino per 180 miliardi di sterline all’anno per Londra, il 12% della produzione e contribuiscano per 66 miliardi a livello di introiti fiscali. In alcuni settori come il trading sulle valute (41% del totale mondiale) o i derivati su piattaforme non regolamentate (49% del totale), Londra rappresenta la piazza leader al mondo: ecco quindi che molti oppositori del Brexit usano come argomento la possibile perdita di influenza e di quota di mercato. C’è poi un altro risvolto importante. Ovvero, il cosiddetto passporting garantito alla Gran Bretagna proprio dalla sua adesione all’Ue. Nel regime attuale, infatti, ogni azienda autorizzata a operare nel Regno Unito più fare liberamente business in qualsiasi altro Paese dell’Unione soltanto facendo richiesta di un “passaporto” al regolatori britannici. Grandi banche non europee come JP Morgan, Nomura, Credit Suisse e chi più ne ha più ne metta, rischierebbero quindi di vedersi negata la possibilità di avere accesso a un mercato da 500 milioni di persone attraverso le loro sedi londinesi, se il passporting dovesse cessare di esistere a seguito del Brexit.
E sempre restando in tema di banche, giova ricordare che ogni singolo giorno più di un triliardo di euro cambia di mano sulla piazza londinese, un livello che la Banca per i regolamenti internazionali stima essere circa la metà del totale quotidiano mondiale. Inoltre, oltre tre quarti di tutto il trading over-the-counter sui derivati, ovvero attraverso negoziazioni su piattaforme non regolamentate, viene operato a Londra: senza più accesso al mercato unico, cosa accadrà all’operatività di quegli istituti? Non a caso, negli Stati Uniti le grandi firm si stano attrezzando per possibili migrazioni operative verso Wall Street. Non stupisce, quindi, che nessuna azienda quotata sull’indice Ftse 100 di Londra voglia che la Gran Bretagna abbandoni l’Ue, come certificato da un sondaggio del Financial Times: stupisce un po’ di più, invece, che soltanto 18 di loro siano però pronte a dichiararsi ufficialmente a favore della continuazione dello status di membro dell’Ue. Insomma, amore ma non troppo. Perché? Tra poco lo scopriremo, primo un altro grafico (a fondo pagina) che ci mostra quale sia il grado di interconnessione e dipendenza commerciale della manifattura britannica con il mercato unico europeo: vale la pena di metterlo a rischio, visto che potrebbe subire dazi o altri aggravi a causa della perdita della membership Ue da parte di Westminster? Una cosa è certa, titoli azionari, Gilt(i bond sovrani britannici) e sterlina da qui al 23 giugno vivranno tempi agitati e alti e bassi, almeno fino a quando non ci sarà un’indicazione chiara rispetto all’esito del referendum.
Anzi, di chiaro c’è anche dell’altro. Londra pare infatti disposta, nei fatti, a mettere a rischio quanto sopra elencato per un motivo semplice: la crisi dei migranti, altro argomento del vertice di Bruxelles che però non ha trovato una soluzione e ha invece visto l’Austria andare contro le norme comunitarie, viene vista da governo e cittadini britannici come il pericolo maggiore e come l’iceberg contro il quale andrà a schiantarsi non solo Schengen ma l’intero laboratorio europeo. Quindi, meglio prendere la scialuppa in anticipo anche se con il rischio di trovare mare un po’ agitato che fare la fine, romantica ma tragica, di Leonardo Di Caprio nel film.
Londra non intende morire nel perseguimento utopico e un po’ in malafede del sogno di Adenauer e Spinelli, sia chiaro, preferisce il pragmatico egoismo di Sir Winston Churchill. E il perché è chiaro, migranti a parte. Il centro del potere in Europa è già passato dall’Ue all’eurozona, ovvero conta solo chi ha adottato la moneta unica e a Westminster lo sanno bene. Quindi, paradossalmente, un Brexit non farebbe altro che – dopo un po’ di turbolenza estiva – accelerare il progresso di integrazione politica dei membri dell’eurozona, rendendo il concetto stesso di Ue sempre meno importante. Cosa abbiamo visto accadere, infatti, negli ultimi dieci anni in ambito Ue? Abbiamo visto entrare nazioni che hanno interessi contrapposti a quelli dell’Unione, in primis a livello monetario e di sovranità della Banca centrale e addirittura aprire le porte, attraverso negoziati, all’ingresso potenziale di un Paese come la Turchia che con l’Europa non condivide nemmeno i valori base.
Le relazioni commerciali con la Gran Bretagna, di fatto, possono essere sospese senza alcuno scompiglio generale, basti vedere cos’è accaduto con la Russia, la quale non è stato membro ma il non adottare l’euro accomuna molto Londra a Mosca in caso di irrigidimento. I confini possono essere aperti o chiusi a scelta dei vari Paesi, come ci mostrano quelli dell’Est e l’Austria in queste ore e il Trattato di Dublino può essere cancellato in una notte di fronte all’emergenza di oltre un milione di rifugiati entrati in Europa dalla scorsa estate. L’eurozona è questo e per restare insieme, per non crollare portando con sé buona parte del sistema finanziario occidentale, deve basare tutto sulla moneta, non sulla politica: non è un caso che i due pilastri ora in discussione siano unione fiscale e bancaria, un qualcosa di ineludibile se non si vuole vedere implodere l’intera struttura dell’Unione.
Insomma, Cameron con le sue continue richieste di opt-out rappresenta solo una noia per un’Ue costretta a lottare tra enormi difficolta e chiusa tra l’incudine di una necessaria maggior integrazione degli Stati e il martello dell’erosione continua del supporto a favore proprio di quell’integrazione. Ricordate le parole che Nicolas Sarkozy riservò a David Cameron nel 2011, in piena crisi del debito sovrano? «Siamo stanchi delle tue continue critiche e del fatto che tu continui a dirci cosa dobbiamo fare. Dici che odi l’euro, che non lo adotterai mai e adesso vuoi interferire nelle nostre riunioni». Il Brexit è già nei fatti. D’altronde, Le Figaro, quotidiano della destra francese, titolò un suo articolo così: «Brexit? Un’opportunità per la l’Europa, la Francia e Parigi». Infatti, con il Regno Unito fuori dall’Ue, Francoforte e Parigi avranno sempre maggiori opportunità di competere e mettere in discussione il ruolo di Londra come principale centro finanziario continentale: non è un caso che sia Angela Merkel che Francois Hollande abbiano già minacciato le banche britanniche in caso di Brexit, facendo chiaramente capire che Francoforte e Parigi faranno di tutto per garantirsi lo status di hub finanziario a spese proprio di Londra.
E non è una minaccia generica, perché Germania e Francia hanno già pronto un piano al riguardo attraverso la forzatura delle proprie giurisdizioni sulle transazioni in euro che sono compiute a Londra. C’è un precedente in tal senso che i legislatori tedeschi hanno già studiato molto attentamente e si tratta di quanto fatto nel 2006 dagli Usa nei confronti della banche europee, proibendo loro transazioni in dollari con Cuba, nonostante queste ultime fossero perfettamente legali in Europa. Le banche tedesche, francesi e olandesi furono costrette a lasciare Cuba e pagare pesanti multe, l’alternativa alle quali era dover lasciare gli Stati Uniti: Francoforte e l’Ue possono imporre regole simili alle banche operanti a Londra, obbligandole ad accettare le limitazioni o a lasciare l’area euro. Alcuni alti diplomatici britannici come Sir Nigel Sheinwald, Sir John Grant e Sir Stephen Wall hanno già avvertito Cameron e il governo del rischio, dicendo chiaramente che Parigi e Francoforte non andranno certo per il sottile nel tentativo di scardinare la preminenza finanziaria londinese in caso di Brexit.
Ecco cosa c’è davvero in palio, nulla di cui si sia parlato apertamente venerdì a Bruxelles, ma qualcosa a cui ci si sta preparando da tempo in Germania e Francia. Qui, invece, parliamo di riforma delle Bcc. E, soprattutto, non si possono indire referendum su materie europee. Bella democrazia.