Il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, venerdì ha incontrato a Roma il presidente del consiglio, Matteo Renzi. La visita ha segnato il disgelo dopo le polemiche degli scorsi mesi. Juncker ha sottolineato che la Commissione “non è un raggruppamento di tecnocrati e burocrati a favore di un’austerità sciocca”. Quindi ha aggiunto: “C’è un’ampia identità di vedute, più punti di incontro che parziali disaccordi, a volte maldestri”. “Il governo è dalla parte delle regole, crede nel rispetto delle regole e fa di tutto per essere all’avanguardia”, gli ha risposto Renzi. Ne abbiamo parlato con il professor Francesco Forte, ex ministro delle Finanze e per il Coordinamento delle politiche comunitarie.



Professore, in virtù di che cosa le passate tensioni tra Juncker e Renzi sono state risolte?

Quella andata in scena a Roma è una finzione di convenienza reciproca. La lite è stata asperrima, ci sono stati anche degli insulti. Adesso tanto Juncker quanto Renzi hanno pensato che non ci facevano una bella figura e quindi hanno fatto marcia indietro. Rimane però il fatto che c’è stato un dissenso. Juncker rappresenta le vedute dell’Ue, che nei confronti del governo Renzi in questo periodo è piuttosto negativa. Juncker e Renzi hanno sbagliato a litigare, perché un dissenso politico può anche esprimere due punti di vista diversi senza per questo abbassarsi a uno scontro personale. Anche dopo la visita di Juncker a Roma il dissenso politico però rimane invariato.



Renzi gode ancora della fiducia dell’Europa?

Renzi non gode più della fiducia delle istituzioni europee. Non soltanto perché si è messo a fare questi attacchi sul patto di stabilità, ma soprattutto perché si è capito che non controlla più nemmeno il suo partito. Ha quindi una maggioranza friabile perché non è riuscito a risolvere alcuni dei più problemi che aveva.

Però può vantare di avere fatto le riforme …

In realtà nella stessa dichiarazione in cui ha riconosciuto che l’Italia ha fatto importanti riforme, l’Ocse ha aggiunto che sul problema della disoccupazione bisogna fare di più. Siccome l’unica riforma economica di rilievo è il Jobs Act, che riguarda l’occupazione, il giudizio dell’Ocse sulle nostre riforme non è pienamente positivo.



Il problema riguarda soltanto il Jobs Act?

No. Tutta la questione che Renzi ha dibattuto sulle banche non ha prodotto risultati, e ciò ha inficiato la fiducia nelle capacità del premier di fare qualcosa di rilevante in questo ambito. Da Bruxelles Renzi è considerato quindi come un ragazzo che pianta delle grane e che non risolve i problemi.

A Roma si è parlato anche del prolungamento del piano di investimenti di Juncker. Lei che cosa ne pensa?

Le proposte di Renzi all’Ue sui compiti che Juncker dovrebbe svolgere appartengono ai “discorsi fantastici” cui ci ha abituato il nostro premier. Si tratta di capire in quale misura Juncker riuscirà a fare decollare il suo piano, anziché inventarsi una cosa del tutto diversa. Se c’è un piano che fatica a decollare, nel momento in cui l’economia necessita di misure con un’efficacia in tempi brevi, è inutile inventarsi una cosa nuova che potrebbe entrare in funzione tra tre o quattro anni. Quelle che Renzi fa sono chiacchiere, utopie e sogni di grandezza che non hanno riscontro nella realtà. Ci sono problemi urgenti come quello dell’immigrazione, rispetto a cui non si sa quale sia la posizione della Commissione Ue.

 

Intanto è arrivato il report della Commissione Ue sugli squilibri macroeconomici, che mette in evidenza i problemi del debito pubblico italiano…

Quest’anno è in corso un rallentamento congiunturale in tutta l’Europa, e quindi anche in Italia che di solito ha una velocità inferiore alla media. Questo fa sì che invece che scendere quest’anno il debito italiano salirà. Il cortocircuito esistente tra i debiti pubblici e il sistema bancario fa sì che nel medio termine l’Italia potrebbe diventare un Paese molto rischioso anche dal punto di vista dei parametri bancari. Il fatto che in questo periodo ciò non accada non vuole dire molto per chi ragiona in una prospettiva di qui a quattro o cinque anni.

 

(Pietro Vernizzi)