Oggi cerchiamo di ragionare a mente fredda riguardo il mondo di follia monetaria in cui stiamo vivendo: com’è possibile che con l’armamentario di stimolo che è stato messo in campo non si sia riusciti a generare una ripresa economica sostenuta e sostenibile o, quantomeno, eliminare la minaccia della deflazione? Alcuni analisti ormai concordano nel fatto che alla base del problema ci siano le “4 D” deflazionarie: ovvero, eccesso di debito, deleverage del settore finanziario, demografia dell’invecchiamento e distruzione tecnologica.
Vediamo rapidamente in dettaglio. I livelli di debito, infatti, sono rimasti molto ampi: stando alla Banca per i regolamenti internazionali, il debito globale come percentuale del Pil era al 246% nel quarto trimestre del 2000, al 269% nel quarto trimestre del 2007 e al 289% nel quarto trimestre del 2014. Secondo, il deleverage ha impedito la ripresa attraverso il settore immobiliare e il suo effetto moltiplicatore: l’Housing Credit Index di CoreLogic, che misura la disponibilità di credito per mutui immobiliari negli Usa, si è schiantato da 100 a 42 negli ultimi sette anni e il numero di mutui in essere è calato di più di 1 triliardo di dollari dal picco di 14,8 triliardi del 2008. Terzo, i livelli demografici ci mostrano un drammatico invecchiamento nella popolazione del mondo sviluppato: nei prossimi 10 giorni, 112mila persone negli Usa, Europa e Giappone raggiungeranno l’età pensionabile di 65 anni. Quarta e ultima “D”, la distruzione del lavoro attraverso l’innovazione robotica. Stando a previsioni dell’ultimo World Economic Forum di Davos, questo tipo di sviluppo nel mondo del lavoro causerà la perdita di 5,1 milioni di posti di lavoro nei prossimi 5 anni.
C’è poi chi parla delle “4 C”, ovvero Cina, commodities, credito e consumi come fattori cardine per riattivare gli animal spirits sia del settore corporate che dei cittadini. Una cosa è chiara, anche se nessuno ne parla con la giusta enfasi: i destini della crisi in atto, ovvero la possibilità di invertire la rotta o la discesa inevitabile verso una nuova recessione globale, passano per il meeting che si terrà i prossimi 26 e 27 febbraio a Shanghai e che vedrà riuniti i ministri delle Finanze del G20 oltre ai banchieri centrali.
La storia sta per conoscere un nuovo avvenimento spartiacque? Tra qualche anno parleremo di un fantomatico “Accordo di Shanghai” come la pietra miliare per l’economia e la finanza globale? Io ho un timore. Ovvero che con l’approssimarsi di quell’appuntamento, se il mercato non vedrà chiari segnali verso interventi radicali, dovrà stimolarli con nuovi tonfi che obblighino tutti a guardare la realtà e a correggere le risposte messe finora in campo. Un rapido miglioramento nella condizione delle “4 C” appare difficile, quindi cosa potrebbero decidere i masters del mondo a Shanghai? Anzi, cosa vorrebbe il mercato da parte dei regolatori?
Primo, una netta svalutazione una tantum dello yuan cinese. Secondo, l’annuncio da parte della Fed dell’apertura diswap lines o altre misure di sostegno del sistema finanziario per evitare un contagio diretto verso i mercati emergenti, dato che le mosse di Federal Reserve e ultimamente di Bank of Japan non hanno fatto che aumentare la crisi di liquidità in dollari per Paesi molto indebitati, operando di fatto una margin call sul biglietto verde. Terzo, un annuncio da parte del Tesoro statunitense di misure per ottenere la stabilità del dollaro, al fine di aiutare a uscire dalla spirale mortale in cui si trovano la manifattura Usa, i mercati emergenti e il petrolio. Quarto, Usa, Germania, Regno Unito e Francia prometteranno stimolo fiscale per aumentare gli investimenti pubblici, soprattutto in infrastrutture di alto livello e qualità.
Ma come vi dicevo, per fare in modo che i regolatori arrivino a un accordo su questi quattro punti – o, almeno, su due di loro – potrebbe esserci la necessità di un grande spavento globale, ovvero la necessità che i mercati collassino ancora: insomma, il grande rischio di inizio 2016 è che i mercati abbiano bisogno del panico per ottenere risposte politiche coordinate. Ma c’è un problema in più ad aggravare la situazione, un qualcosa frutto proprio delle politiche assurde poste in essere finora dalle Banche centrali. Alla fine del 2015, i titoli di Stato che nel mondo viaggiavano con rendimenti sotto zero erano pari a 3mila miliardi di dollari. Ora, dopo appena un mese del 2016, siamo a 5.500 miliardi o 5,5 triliardi se si preferisce questa unità di misura, come ci mostra il primo grafico a fondo pagina. Il succo non cambia: una marea di titoli di Stato oggi non offre più un rendimento, anzi bisogna pagare il venditore per possederli e a dover mettere mano al portafoglio per detenere carta sovrana e avere il privilegio di parcheggiare il proprio capitale nella sicurezza dei bond governativi sono qualcosa come un quarto degli obbligazionisti mondiali.
Di più, la paura che un deterioramento economico e l’aumento esponenziale delle politiche abnormi delle Banche centrali per combattere la deflazione hanno ottenuto l’effetto contrario: ovvero, non solo siamo nello scenario bizzarro di investitori che pagano governi per detenere i loro soldi, ma le aspettative inflazionistiche a 5 anni sono ben lontane dal mitologico 2%, tanto che al livello attuale di quelle Usa, il buon Ben Bernanke diede vita al Qe2. Un quarto dell’indice per i bond governativi di JP Morgan ha tassi negativi e venerdì scorso, dopo la mossa della Bank of Japan sui tassi, i rendimenti di bond giapponesi, francesi e tedeschi hanno toccato minimi record: e giova ricordare che solo una settimana prima, il governatore della Banca centrale nipponica, Haruiko Kuroda, aveva categoricamente escluso il ricorso a una politica del genere.
In Europa, la prima area del mondo ad adottare tassi di interessi negativi, circa metà del debito governativo ha rendimenti sotto zero, con Germania, Finlandia e Svizzera in cima alla classifica e con gli yields in negativo fino alla scadenza benchmark del decennale. La mattina di sabato scorso almeno 13 nazioni avevano i rendimenti del bond a 2 anni in negativo e 10 nazioni arrivavano a yields sotto zero fino alla scadenza dei 5 anni. Il secondo grafico mette la situazione in prospettiva e ci mostra come oltre un quinto del Pil globale, il 23,1%, oggi è prodotto da nazioni che hanno tassi di interessi negativi, calcolando che solo Bce e Bank of Japan insieme sono responsabili per il 21% del Pil globale e i Pil di Svizzera, Finlandia e Danimarca aggiungono un altro 2,5% al totale.
Insomma, mai nella storia così tante Banche centrali avevano esplorato territori negativi sui tassi nello stesso momento. Ma attenzione, perché come ci mostrano plasticamente gli esempi di Danimarca, Svezia e Svizzera, più i tassi vanno in negativo, più aumentano i risparmi dei cittadini: stimoliamo così inflazione e consumi interni? Come mai accade questo? Semplice, tassi ultra-bassi per troppo tempo possono perversamente aumentare la propensione al risparmio dei consumatori, anche in relazione alle sempre maggiori incertezze rispetto ai sistemi pensionistici. Inoltre, nonostante il sostegno delle Banche centrali, le aziende in Europa stanno facendo deleverage e nonreleverage e stanno riacquistando propri bond e non azioni.
Ora al grande circo dei tassi negativi si è aggiunto il Giappone e state certi che non manca molto all’arrivo nella compagnia cantante anche degli Stati Uniti e il motivo ce lo mostra questo ultimo grafico, dal quale desumiamo che dalla metà del 2015, gli investitori Usa hanno comprato praticamente zero bond ed equities, essendo stati venditori netti di rischio e hanno parcheggiato tutto il cash incrementale nei money-market funds, precisamente il tipo di non-investimento inerte che le Banche centrali odiano quanto l’oro. Ovviamente, Janet Yellen non può accettare che questo atteggiamento prosegua e quindi vedrete che agirà sulla leva del disincentivo attraverso i tassi negativi.
Cosa otterrà, operando così? Lo schianto dei money-market funds e l’aumento della volatilità sui mercati mondiali. Ma tanto si troverà una soluzione al vertice di Shanghai, sicuramente. Almeno, così speriamo.