Come l’estate 2011, anzi no: nell’inverno 2016 l’Europa sembra avvitarsi, attorno all’Italia di Matteo Renzi, in modo singolare rispetto a come risucchiò l’Italia di Silvio Berlusconi nel gorgo dello spread. È molto diversa l’Europa, ha lucidamente spiegato ieri Giulio Sapelli su queste pagine. Ma è una diversità che si scarica con effetti simili su un’Italia finanziariamente debole: sia nel suo bilancio pubblico che nel suo sistema bancario.
Cinque anni fa Angela Merkel, comunque, era in sella a Berlino e da lì rafforzava la leadership tedesca sull’Unione europea; e François Sarkozy, da Parigi, scatenava una guerra strana ma terribilmente efficace nell’annientare il regime di Gheddafi. Roma subiva inerme e la stessa promozione di Mario Draghi al vertice Bce, per certi versi, certificava lo strapotere dell’Europa carolingia, capace di imporre all’Europa mediterranea le condizioni più dure (è toccato alla Spagna e poi alla Grecia), attraverso un banchiere centrale italiano e un presidente di Commissione Ue portoghese.
Oggi la cancelliera tedesca si vede prospettare – se non addirittura intimare – le sue dimissioni anticipate dallo Spiegel. E sono membri del suo partito (fra cui il ministro delle Finanze Wolfgang Schauble e il capogruppo Ppe all’europarlamento Martin Weber) a metterla sotto pressione: aprendo di fatto una lunghissima campagna elettorale fino alla scadenza 2017. La grosse koalition che nel 2013 sembrò esaltare l’esito elettorale per la “regina Angela” si rivela oggi una faglia ogni giorno più pericolosa. E l’Spd che meditava per paradosso di non correre neppure alle prossime politiche, “prorogando” – tacitamente la grande coalizione merkeliana – si vede sfidata dai falchi Cdu-Csu che puntano all’intera posta, dichiarando virtualmente chiuso il decennio della cancelliera. “Licenziando” una Merkel che – pur fra mille mediazioni – aveva tenuto la Grecia dentro l’euro e aveva aperto le porte ai migranti siriani.
Due segnali in fondo non negativi verso l’Europa meridionale, inquieta e scalpitante sia nei leader alla Renzi/Tsipras, sia nelle piazze populiste. Ma anche la Francia di François Hollande, indebolita dagli attacchi Isis nel cuore di Parigi, può essere insidiosa di quelle che fece dell’Italia una retrovia di una guerra che distruggeva gli interessi italiani nel Nord Africa. A Bruxelles, intanto, Jean-Claude Juncker è tornato a presidiare l’eurocrazia in chiave “centro-continentale” (ostile all’Italia tanto quanto alla Gran Bretagna), mentre i falchi tedeschi stanno alzando il tiro su Draghi: la sua svolta dal rigorismo del 2011 verso il favore per le politiche di stimolo monetario – dal punto di vista di Schauble e del blocco sociale tedesco che si sta ricomponendo attorno alla sua Cdu – è parente della “flessibilità”. Cioè del mantra del premier italiano, lui pure comunque impegnato politicamente all’interno a re-includere fasce di elettorato euro-scettico o euro-deluso.
In modo plastico, i crolli dei titoli bancari in Piazza Affari – l’ultimo quello di ieri – sembrano replicare “un passato che non passa”. Se nel 2011 le banche italiane erano in una situazione di relativa salute dopo la grande crisi del 2008 (erano probabilmente in condizioni migliori rispetto alla media del sistema tedesco). L’attacco allo spread naturalmente fu letale: soprattutto per la recessione indotta dalle politiche di austerity.
I dissesti già dichiarati nel 2015 o già quasi annunciati per il 2016 ne sono il corollario purtroppo inevitabile: idem l’umiliante affronto della Ue sulla bad bank e l’aperta impar condicio nelle autorizzazioni degli aiuti pubblici (discriminatoria sul terreno bancario tanto quanto nella gestione degli arrivi di migranti o perfino nel coordinamento delle ipotesi d’intervento militare sugli scacchieri Isis).
L’Italia del 2011 dapprima fu lentissima nel reagire: tutti ricordano ancora i tre tentativi a vuoto, nel cuore dell’estate, per impostare manovre finanziare. Né Silvio Berlusconi, né il suo super-ministro Giulio Tremonti vollero o poterono mostrarsi all’altezza delle loro responsabilità istituzionali. Draghi, dal canto suo, co-firmò come presidente designato alla Bce una lettera che ricambiava primi interventi della banca centrale a sostegno dei Btp con impegno di austerità durissima. A quel punto – senza molte alternative – il Quirinale di Giorgio Napolitano “fece presto” nell’insediare Mario Monti.
Nonostante l’attivismo di Renzi, neppure l’Italia del 2016 sembra sufficientemente veloce, più credibile di quella del 2011. La forti turbolenze di Borsa dei titoli bancari sono la conseguenza – non la causa – di una crisi bancaria che è molto tributaria dell’assenza di politica e di efficienza istituzionale. Esattamente come gli attacchi speculativi allo spread italiano furono molto più il risultato di un governo debole – e percepito come tale – che di una cospirazione internazionale. Certo se Renzi facesse nuovamente ruzzolare il suo Paese nella polvere per lentezza e debolezza nei confronti di leader europei appannati sarebbe ancor più imperdonabile.