Cosa succede sui mercati? Anzi, cosa succede dietro le quinte dei mercati? Il dollaro ha sofferto il calo peggiore degli ultimi 20 anni e questo è accaduto per un motivo semplice, di cui vi ho in parte già parlato ieri: la Fed ha cambiato marcia e ha segnalato una ritirata dalle intenzioni di normalizzare la propria politica monetaria, innescando un rally nei prezzi delle materie prime e allentando un feroce squeeze sul biglietto verde per i debitori esteri, Cina ed emergenti in testa. Purtroppo avevo ragione io: non solo l’economia Usa non era in grado di sopportare nemmeno un quarto di punto di aumento, ma il rialzo dei tassi di dicembre, in meno di un mese, aveva già innescato una margin call sul dollaro a livello globale potenzialmente letale. Complimenti alla Fed, un qualsiasi neo-laureato in economia avrebbe fatto meglio. E molto. Ma loro no, loro sono i padroni del mondo e allora decidono in base alle necessità politiche: quando però, come accaduto questa settimana, il dollar index cala del 3%, arrivando a quota 96,44 e perdendo tutti i guadagni ottenuti dalla fine di ottobre, allora scatta l’allarme. E scatta perché ciò che la Fed decide e opera ha immediata ripercussione sul sistema finanziario globale, mai così interconnesso e mai così dipendente da ogni fiato che arrivi da Washington.
E attenzione, perché quanto sta emergendo da sempre più centri studi potrebbe rivelarsi molto negativo per l’Europa e l’euro. L’ultimo al riguardo è stato David Bloom di Hsbc, a detta del quale il rally del dollaro durato per gli ultimi tre anni è ormai ampiamente finito e dobbiamo attenderci un reverse della situazione, visto che i sempre peggiori dati macro renderanno impossibili i quattro aumenti dei tassi che la Fed aveva annunciato per il 2016. Quindi niente quantitative tightening annunciato ma si torna al quantitative easing, o stampando o mandando i tassi in negativo come in Giappone. Ma se Washington agisce in tale senso, da un lato elimina stress dai mercati emergenti rispetto alle esposizioni debitorie estere, ma vanifica gli sforzi, già estremi nel caso di Tokyo, di Bank of Japan e Bce di svalutare le loro valute per combattere la deflazione che il mondo sta importando con il badile dalla Cina.
Questa settimana l’euro ha guadagnato il 3%, non limitandosi a rompere quota 1,10, ma arrivando ieri a 1,12 sul dollaro. In termini bilanciati al commercio oggi l’euro è sopravalutato del 5% in più rispetto a marzo, quando la Bce ha dato vita al suo programma di Qe: e cosa ci dice questa dinamica? Due cose: primo, è difficile svalutare quando tutti stanno facendo lo stesso gioco; secondo, a oggi al mondo sul tavolo da gioco le carte le distribuisce ancora e solo la Fed. Certamente un rallentamento della corsa del dollaro è un toccasana per aziende e banche nel mondo, le quali hanno preso a presto – grazie alla politica di tassi zero della Fed – qualcosa come 9,8 triliardi di dollari al di fuori degli Usa, il tutto in netto contrasto con quanto accadde solo dieci anni fa, quando l’ammontare era meno di 2 triliardi.
Eh già, il mondo vive sul dollaro e ogni volta che il dollaro si muove, si innescano shock: stando a calcoli di Royal Bank of Scotland, l’80% del debito di giganti globali come Alibaba, Cnooc, Baidu e Tencent è denominato in dollari e a poca distanza troviamo soggetti come Gazprom, Lukoil, Vale e China Overseas.
E proprio la Cina è la principale beneficiaria della politica della Fed di questi giorni, visto che sta bruciando riserve estere per difendere lo yuan dalle fughe di capitali: Pechino ha già bruciato 800 miliardi di dollari e ora le riserve sono a 3,2 triliardi, ovvero solo 400 miliardi dalla quota che il mercato ritiene psicologica per la tenuta della credibilità della Banca centrale cinese. Al ritmo finora tenuto, è questione di mesi e se per caso il mercato cercasse di mettere in discussione l’operato della Pboc, la Cina potrebbe essere costretta a lasciare svalutare lo yuan, con conseguenze poco preventivabili a livello globale. In parole povere, la Fed sta facendo bail-out della Cina e soltanto l’estensione di questa opera caritatevole a livello monetario può darci l’idea di quanto tempo Pechino ha a sua disposizione per mettere a posto le cose nel casinò borsistico e in quello bancario.
Quanto durerà la scelta espansiva della Fed? Ieri vi ho parlato della mossa che ha innescato il tonfo del dollaro, ovvero la sconfessione dell’operato della Fed, pubblica, da parte del capo della Fed di New York, Bill Dudley, e questo mi fa pensare che la Federal Reserve questa volta non sbaglierà di nuovo. Ogni indicatore macro, dai nuovi ordinativi industriali alle vendite al dettaglio, dall’Ism manifatturiero ai nuovi occupati fino alla ratio scorte/vendite all’ingrosso, gridano recessione per l’economia Usa, quindi siamo forse giunti al miracolo di una Banca centrale che smette di fare riferimento agli unicorni e torna a guardare all’economia reale prima di prendere una decisione.
Il broad dollar index della Fed, che include i mercati emergenti e il bilanciamento al commercio, è cresciuto molto più nettamente del Dxy dollar index dalla fine del 2011 a oggi e la sua strada non appare certo conclusa. Inoltre, l’indice di stress finanziario della Fed di Cleveland è ai massimi dalla crisi dei debiti sovrani europei, senza contare gli spread ai massimi sul debito ad alto rendimento. Stando all’ultimo sondaggio di Bank of America, il 60% degli operatori interpellati pensa che la Fed non alzerà più i tassi quest’anno, visto che dopo aver agito per puro spirito politico, oggi la Banca centrale Usa è costretta a fare i conti con la realtà globale. Ma anche interna.
Nonostante i proclami della Fed e dei giornali italiani, la paga media oraria oggi negli Usa ha lo stesso potere d’acquisto che aveva nel 1980. Di più, un salario di 4,03 dollari l’ora nel 1973 ha lo stesso poter d’acquisto di circa 22,41 dollari l’ora oggi: bene, l’ultimo dato Usa al riguarda parla di 25,24 dollari l’ora. E non bisogna guardare l’ammontare in sé, ma cosa si può comprare oggi con quei dollari e scoprirete che si può acquistare molto meno di quanto non si potesse fare nel 1973, 1980 e anche nel 2000.
La recessione non è mai finita, è solo stata mascherata dai rally azionari garantiti dalla Fed. Inoltre, in un’economia che si basa al 70% sui consumi, appare quantomeno inquietante il dato uscito l’altro giorno in base al quale il tasso di risparmio personale è al 5,5%, ai massimi dal 2012: d’altronde, con un potere d’acquisto del tipo che vi ho appena raccontato, voi spendereste?
E sempre in ossequio al quel 70% del Pil che si basa sui consumi, ecco le chiusure già annunciate di punti vendita da parte dei principali marchi Usa per il 2016. Wal-Mart chiuderà 269 punti vendita a livello globale, 154 dei quali negli Usa e taglierà circa 16mila posti di lavoro; K-Mart 27 punti vendita da qui a giugno; J.C. Penney chiuderà 47 store, dopo averne chiusi 40 nel 2015; Macy’s chiuderà 36 punti vendita e taglierà circa 2500 posti di lavoro; Gap chiuderà 175 negozi in Nord America; Aeropostale 84 punti vendita; Finish Line 150 punti vendita da qui al 2018; Sears, che lo scorso anno ha chiuso 600 punti vendita, ha annunciato possibili nuove chiusure visto che le vendite continuano a calare. Vi pare un’economia che poteva reggere un rialzo dei tassi, anche solo di un quarto di punto, dopo sei anni di metadone di Stato?
Gli ordinativi di beni durevoli si siano sfracellati al suolo, segnando un -5,1% su base mensile, mentre le spedizioni e i nuovi ordinativi del segmento core – quello che esclude la difesa – sono scese addirittura del 7,5% su base annua: in entrambi i casi, siamo ai livelli minimi dal crollo Lehman. Dinamiche di calo simili non si sono mai registrate in America al di fuori di una recessione o nei mesi subito precedenti a essa. Infine, è di ieri la notizia che a gennaio negli Usa sono stati creati solo 151mila nuovi posti di lavoro non agricoli, contro le attese di 190mila e quelle di oltre 200mila di molte banche d’affari.
Insomma, salvando la Cina – attraverso l’indebolimento del dollaro – gli Usa hanno salvato anche se stessi, segnalando al mondo il proprio errore e permettendo almeno ai mercati di non schiantarsi. Ora però serve attivare la ripresa vera, peccato che il ciclo storico ci indichi come una recessione arrivi ogni sette anni negli Usa e il settimo anno dall’ultima incorsa è proprio il 2016: quale bazooka devono inventarsi gli Usa? L’unico che ha sempre funzionato nella storia, il moltiplicatore del Pil per eccellenza: il warfare, le spese per la difesa. E guarda caso, mercoledì, il ministro della Difesa Usa, Ashton Carter, ha annunciato un budget del Pentagono per l’anno fiscale 2017 da 582,7 miliardi di dollari. Queste le voci contemplate: 7,5 miliardi per la lotta all’Isis; 71,4 miliardi per sviluppi strategici; 8,1 miliardi per guerra sottomarina; 1,8 miliardi per le munizioni. Ma soprattutto, il Pentagono intende quadruplicare, passando dagli attuali 800 milioni a 3,4 miliardi, la spesa per investimenti nei Paesi Baltici in chiave deterrente a quella che Carter ha definito “l’aggressione russa all’Europa”. Lo conferma il Washington Post, a detta del quale «in ossequio alla European Reassurance Initiative, il Pentagono intende aumentare la presenza di truppe statunitensi in Europa, espandere il posizionamento di veicoli da combattimento e altri equipaggiamenti, aiutare gli alleati a costruire infrastrutture militari e addestrare più truppe alleate».
Unite a questo le armi che l’industria bellica Usa vende a mezzo mondo e il fatto che mezzo mondo stia armandosi per combattere in Siria, Iraq, Libia, Yemen e chi più ne ha, più ne metta e capite da soli quale ricetta abbiano scelto gli Stati Uniti per evitare che nuova recessione sia trasformi in realtà in una depressione globale. È la guerra, bellezza. E finché c’è lei, c’è speranza.