Nel suo discorso nella tana del lupo, a Francoforte, davanti al parterre della Bundesbank, Mario Draghi si è mostrato molto preoccupato. Ci sono componenti strutturali dell’economia globale che tengono in basso l’inflazione e rendono poco efficace la politica monetaria, ha detto. E ha ripetuto: non ci arrenderemo. Quelle componenti non sono permanenti (per esempio, il prezzo del petrolio), in ogni caso il presidente della Bce è convinto di avere una cassetta degli attrezzi ancora piena di strumenti, quelli giusti per reagire. Il problema è usarli fino in fondo e senza timori o timidezze.



Il messaggio era rivolto alle preoccupazioni della banca centrale, del governo e dell’opinione pubblica tedesca, la quale resta ancora legata, come in un riflesso pavloviano, al rischio inflazione, anche quando l’evidenza dei fatti dimostra che il pericolo semmai è esattamente il contrario. Ma Draghi ha anche lanciato un allarme a tutti, perché non c’è dubbio che le forze globali in azione “congiurano” (come ha detto) a innescare nuovi rischi di recessione: la Cina si sta fermando, i paesi in via di sviluppo affondano, gli Stati Uniti sono paralizzati da una campagna elettorale tra le più incerte e pazze della storia recente.



Dunque, siamo a una svolta? Su queste pagine lo abbiamo scritto all’inizio dell’anno, osservando i mercati che scommettono proprio su un’inversione del ciclo. Gli infausti vaticini potrebbero rivelarsi errati, ma molto dipende da come reagirà il governo dell’economia soprattutto in Europa. E qui è davvero difficile essere ottimisti. Il progetto europeo ha perso da tempo la sua spinta propulsiva, s’è appannato durante la grande crisi, viene rimesso in discussione oggi dall’ondata migratoria e dalla risposta in ordine sparso alle tensioni sociali ed economiche. Nessuno sembra credere più che si possa far appello ai valori sui quali i visionari di Ventotene, oggi tanti celebrati, basarono la loro idea di un’Europa di pace dopo che il Continente aveva scatenato due conflitti mondiali e ne era stato dissanguato. L’Unione si è prima disunita, poi rinazionalizzata, infine oggi si sta dissolvendo, priva com’è di una classe dirigente all’altezza delle sfide. L’ipotesi tedesca di rilanciarla attorno a un nocciolo duro sembra persino velleitaria se nemmeno la Francia è in grado di rispettare i limiti e i vincoli che i pochi virtuosi impongono a se stessi e agli altri.



È comprensibile, in questo senario, che il governo italiano morda il freno, strepiti, si agiti per strappare qualche scappatoia. Poca cosa, ma forse abbastanza per non restare soffocati. Quale risultato potrà ottenere Matteo Renzi a parte mostrare urbi et orbi che non vuol fare il tappetino a Jean-Claude Juncker e ai suoi burattinai tedeschi? Per rispondere dobbiamo dare un’occhiata a come sta andando l’economia reale e all’impatto della Renzinomics.

Il dato più evidente è che gli stimoli non hanno funzionato. I bonus non hanno fatto aumentare i consumi. L’incremento del potere d’acquisto, tutt’altro che disprezzabile (+1,4%) è andato per due terzi a rimpolpare i risparmi sotto forma di depositi bancari a vista. Ciò è il segnale chiaro della paura del presente e ancor più del futuro. Gli economisti lo chiamano comportamento cautelativo, tipico delle fasi di grande instabilità e incertezza. Per contrastarlo, ovviamente, occorre rimuovere le cause che lo hanno provocato. Alcune di esse sono fuori dalla portata della politica economica, tanto più di quella nazionale la quale può fare una sola cosa davvero significativa: ridurre le imposte. Sarebbe una scommessa sul futuro, un’iniezione di fiducia, un aumento del reddito disponibile che potrebbe sostenere la domanda (di consumi e di investimenti), anche perché cambierebbe al meglio il barometro delle aspettative. Ma è possibile?

La risposta immediata è no, non ci sono i margini. E non basta certo rosicchiare qualche decimale di punto. Una riduzione vera, perché sia consistente ed efficace, deve abbassare la pressione fiscale complessiva in modo permanente, magari cominciando in punta di piedi per finire di corsa dopo un triennio. Un percorso che aveva disegnato Pier Carlo Padoan fin dalla sua prima legge di stabilità, basandosi anche sulle analisi e sulle previsioni della Banca d’Italia. Le cose sono andate altrimenti, con misure improvvisate inventate da consiglieri improvvisati, perché evidentemente Renzi non si fida di quelli che considera poteri forti a lui estranei.

Esistono le risorse per camminare lungo quel sentiero, per quanto stretto e accidentato? Se si fossero seguite le indicazioni di Carlo Cottarelli, sarebbero saltati fuori una ventina di miliardi tra quest’anno e il 2017. E la sua era un’operazione da bisturi e forbicine, mentre sarebbe possibile tagliare molto di più pur senza intaccare il perimetro dello stato sociale, come si suol dire.

Di proposte, realistiche, concrete, è piena la biblioteca in via XX Settembre. Il fatto è che nessun ministro dell’Economia finora ha avuto l’imprimatur del capo del governo. Giulio Tremonti aveva escogitato i tagli lineari e mal gliene incolse. Vittorio Grilli aumentò le tasse per conto di Mario Monti e non tagliò le spese. Fabrizio Saccomanni cercò di navigare a vista. Padoan sembra Penelope costretta a fare e disfare la sua tela. Dunque, la spesa pubblica è rimasta un tabù intoccabile perché si pensa che sia lo strumento migliore per comprarsi il consenso. Non ci sono movimenti no tax in Italia, paese dove la gente paga ogni anno sempre di più, mugugna, tira la cinghia, protesta, ma non reagisce. Fino a quando?

Anche Renzi continua con il solito tran tran e cerca di aumentare le munizioni per le prossime tornate elettorali (dalle comunali al referendum quest’anno, voto politico forse l’anno prossimo), quindi vuole ampliare il disavanzo pubblico per allargare le spese assistenziali. Così, combatte una battaglia improba a Bruxelles, ma è una battaglia di retroguardia, destinata ad assorbire inutilmente troppe energie. Se volesse davvero sparigliare dovrebbe presentarsi con un robusto pacchetto di tagli fiscali compensato da riduzioni della spesa corrente. Per evitare impatti pro ciclici, di fronte al rischio di una prossima recessione, potrebbe anche ampliare il deficit il prossimo anno, sapendo però che il moltiplicatore fiscale (che ha sulla congiuntura un effetto più forte della spesa) compensa il buco negli anni successivi se le uscite del governo verranno mantenute in linea con la crescita.

È una linea sensata e nient’affatto avventuristica sulla quale chiedere il consenso al parlamento e ai contribuenti. Poi vedremo se Bruxelles sarà in grado di mettere i bastoni tra le ruote.