“L’Europa si trova chiaramente a un bivio”. Lo hanno detto all’unisono alla Suddeutsche Zeitung il capo della Bundesbank, Jens Weidmann, e quello della Banca centrale francese, Francois Villeroy de Galhau. Chissà se qualcuno li ha avvertiti che medesima dichiarazione solenne aveva concluso il Consiglio europeo di Laeken del 15 dicembre 2001, quello che aveva dato vita alla Convenzione che avrebbe dovuto adottare una “Costituzione per l’Europa”, poi notoriamente mai entrata in vigore. L’espressione dunque, oltre a essere un po’ logora (da quindici anni lo si continua in effetti a dire mentre si rimane fermi al detto incrocio), porta leggermente iella. Non più originale è la proposta di un ministro delle Finanze europeo che circola da molti anni a Bruxelles. Eppure la presa di posizione irrituale dei vertici delle banche centrali dei paesi guida in Europa, nell’ormai acquisito scambio di casacche tra politici e board Bce, ha tutto il suo peso. Non foss’altro perché sottolinea la chiara coscienza, anche a quel livello, della secca alternativa tra una deriva di disfacimento a trattati costanti e il rimettere mano alla progettazione europea prima del cedimento strutturale definitivo. 



La posizione è in evidente sintonia con le note opinioni di Mario Draghi, compulsabili nero su bianco nel documento dei cinque presidenti sul futuro dell’Eurozona. “I paesi membri della zona euro – si legge nel rapporto – continueranno a decidere a livello nazionale scelte relative alla tassazione e alla spesa pubblica. Ciò detto, alcune decisioni dovranno essere prese sempre più spesso in modo collettivo, pur assicurando una loro legittimità democratica”. A quel fine “un Tesoro della zona euro potrebbe essere il luogo nel quale prendere queste decisioni”. 



Di ministro del Tesoro per i 19 paesi Euro parla espressamente la pagina 8 del Position paper prodotto dal Mef guidato da Pier Carlo Padoan. Qui si chiarisce meglio però che tale figura, almeno negli auspici italiani, non dovrebbe avere meri compiti di regia delle politiche economiche dei paesi Emu che, certo, come ben illustra la nota, dalla coerenza di tali politiche hanno tanto da guadagnare, ma fungere da apripista a una vera e propria capacità fiscale della zona euro. “A lungo termine, l’Unione monetaria dovrebbe essere dotata di una capacità di bilancio per la promozione degli investimenti ed in funzione di temperamento del ciclo. Una zona fortemente integrata come l’Emu è caratterizzata da beni collettivi che possono essere meglio forniti a livello sistemico”. “Queste funzioni”, conclude la nota, “potrebbero essere gestite da un ministro delle Finanze dell’eurozona”. 



La lista della spesa di “beni pubblici europei” che un embrione di bilancio federale potrebbe adottare nella proposta italiana è aperta, ma da subito si cita un sistema di indennità di disoccupazione continentale che mitighi nei paesi in recessione gli effetti negativi del ciclo. Il meccanismo, ormai largamente studiato, potrebbe essere finanziato, si scrive, o con risorse tratte dai sistemi nazionali di sicurezza sociale o attraverso una “fresh common fiscal capacity”. 

Certamente “bene comune”, nella logica di difendere quel che rimane dello spazio di Schengen, sono le frontiere esterne. Anche in questo ambito, dunque, l’elaborato italiano perora un finanziamento collettivo questa volta con l’emissione di bond strumentali (da presumersi agganciati, in prospettiva, a un bilancio federale). Si legge anche di progetti infrastrutturali su scala europea e di una nuova Europa dell’innovazione e della ricerca che finanzi il principale driver dell’avanzamento tecnologico: l’istruzione. 

L’approccio trasuda tutta la robusta cultura economica di un ex direttore esecutivo del Fmi (poi capo economista dell’Ocse) e ricalca le principali posizioni accademiche, soprattutto d’oltreoceano, che da subito hanno considerato caduca la costruzione monetaria comune in difetto di un ancoraggio a un bilancio e a istituzioni federali. Nel 2001, Rüdiger Dornbusch, economista americano nel frattempo scomparso, raggruppava gli atteggiamenti di quella comunità scientifica nei confronti dell’euro in tre diverse tipologie: “Non può succedere”, “È una pessima idea” e “Non può durare”. Una forzatura storica, monca, pericolosamente sovrapponibile a un sistema di cambi fissi con le medesime speranze di vita (al netto di Mario Draghi che non era stato messo in conto). 

In aree non omogenee come la zona euro, le differenze di competitività, in assenza di un’unione monetaria, sono compensate fisiologicamente attraverso la svalutazione del cambio. Le stesse differenze di competitività dei sistemi produttivi, esistenti anche tra l’Italia e la Germania (ma clamorose, ad esempio, tra la Germania e la Grecia) sono certo gestibili anche in un’unione monetaria, ma attraverso la valvola della fiscalità con i suoi effetti redistributivi e anti-ciclici. Proprio l’Italia – ma anche la stessa Germania con alcuni suoi land riunificati – sperimenta da 150 anni questi effetti perequativi per tenere insieme aree disomogenee in termini di competitività che, difficilmente, sotto la sferza di un sistema che corre in soccorso del vincitore e amplifica le asimmetrie si autoriformano d’incanto in qualche anno. 

Quello che pare accertato è proprio l’impossibilità di sistemi democratici come quelli europei di orientare le politiche di convergenza necessarie per costruire aree monetarie ottimali a colpi di indispensabili riforme (spesso radicali come nel caso italiano) mantenendo un sufficiente grado di consenso popolare, senza il quale il processo integrativo si inabissa. Mai nella sua storia l’Europa ha avuto così scarsa attrattiva anche in paesi dalla solida tradizione europea come il nostro. Mai come oggi questo processo di costruzione è entrato in debito di ossigeno perché privo della spinta comune a cui si è sostituito un miope e istintivo ripiegamento nazionalistico a cui non è difficile pronosticare un effetto domino.

Ma se è vero tutto ciò, proporre all’Europa – e alla Germania in particolare – l’inizio di un percorso di avvicinamento ai suoi cittadini con un sussidio di disoccupazione comune e di stabilizzazione dell’Emu con l’introduzione (sebbene “nel lungo periodo”) di una capacità fiscale e di bilancio della zona Euro non è la soluzione del problema, è la sua enunciazione. Nessuno compos sui, neanche Jens Weidmann, dubita che l’Unione potrà stabilizzarsi definitivamente senza una vera unione bancaria e dunque, come prevede il rapporto dei cinque presidenti, senza l’assicurazione europea dei depositi e più risorse collettive per il macchinoso fondo di risoluzione delle crisi bancarie; che occorra un’arteria femorale che temperi le diacronie dei cicli economici tra i diversi paesi che egregiamente potrebbe essere rappresentata da uno schema di indennità di disoccupazione europeo; che l’impatto sulla crescita collettiva di investimenti su scala europea (ad esempio, nel settore del costruendo mercato unico dell’energia) non è lontanamente paragonabile alle ricadute di singoli investimenti nazionali e si potrebbe continuare. 

Il punto è che per arrivare a questo non basta proporlo bussando ossessivamente alla porta della Germania. Questi riequilibri non sono neutri. Hanno quale effetto imponenti travasi di risorse finanziare da un Paese europeo all’altro. Dalla tasca di un contribuente tedesco, olandese o lussemburghese a uno italiano o spagnolo. In questo quadro istituzionale tali redistribuzioni sono considerate trasversalmente in Germania (non solo dalla Merkel) un azzardo. Un portare acqua in tanti bacili bucati senza alcuna garanzia di controllo sulle operazioni di chiusura dei buchi. Si pensi solamente alla libertà ancora energicamente rivendicata da Renzi di seguire la “sua” politica economica a Bruxelles, i cui effetti potrebbero essere pagati, con quei meccanismi in essere, dagli altri paesi Ue.

È vero che meritoriamente il paper, con il quale rimessi i pugni tasca l’Italia ha ripreso a fare politica, parla di corrispondente e progressiva riduzione dei rischi per l’avanzamento dei meccanismi di solidarietà secondo la rotta tracciata da Draghi, ma questo non è sufficiente per fare breccia nel cuore tedesco. Per farlo bisogna partire da un’illuminante dichiarazione, in un recente dibattito in Italia, di Hans-Werner Sinn, considerato nel 2013 dallaFrankfurter Allgemeine Zeitung l’economista con maggiore influenza politica in Germania. Dice Sinn: “La premier Merkel adora il premier Hollande, non è vero, ma Hollande ama molto il denaro della signora Merkel, e questo è vero. E si parla di un matrimonio. Allora la domanda è: cosa facciamo, comunione dei beni prima del matrimonio o dopo il matrimonio? Questo è il vero problema dell’Europa, un problema di sequenzialità”. 

Ecco il nodo è questo. Vogliamo cedere irreversibilmente sovranità e diventare uno Stato federale come non esclude neanche Sinn? Se non lo vogliamo se ne traggano le conseguenze con tutte le incognite del caso di smontare quanto abbiamo costruito sino adesso nella prospettiva di una “ever closer Union” che è chiaro non tutti vogliono. Se invece lo vogliamo si smetta di chiedere agli altri di farsi carico di problemi domestici senza consentirgli di intervenire per impedirne l’insorgenza o mitigarli. Vale per l’euro e le politiche macro e microeconomiche, ma anche per le frontiere. Le une e le altre in un ottica federale in cui tutto si tiene non sono semplicemente più nostre, ma della federazione. Insomma, sposare la Merkel è comprensibile non sia il sogno erotico più ricorrente degli italiani, ma si smetta di sognare a occhi aperti la comunione dei beni senza il correlato sacrificio di libertà.