Il banchiere centrale è “il pilota automatico dell’economia”, diceva Guido Carli, il primo governatore della Banca d’Italia aduso al linguaggio mediatico. Lui, certamente, poté permettersi di godere di ogni gradevole solitudine del central banker di un tempo: compresa quella di conversare riservatamente con l’allora direttore dell’Espresso, Eugenio Scalfari, che ne pubblicava opinioni incisive e segnali decisivi sotto la firma “Bancor”. Ma l’economia e la finanza del dopoguerra sono ormai preistoria.
Carli e i suoi colleghi erano padroni delle loro valute nazionali, in un mondo ancora lontano dall’essere un mercato, tanto meno globalizzato. Le leve nella carlinga (il cambio, i tassi, i vincoli amministrativi alle banche) consentivano al “pilota automatico” nazionale di tenere sotto controllo le variabili macro di sistemi che già allora erano in fondo “micro”. Solo choc come la fine della parità aurea del dollaro o la prima crisi petrolifera cominciarono a sgretolare quell’ordine post-bellico che, anzitutto, poggiava sull’esclusione da ogni minimo sviluppo intere porzioni di globo (dall’Urss alla Cina).
Più di mezzo secolo dopo Mario Draghi – ieri dopo il consiglio Bce e lo choc immediato dei mercati per le sue decisioni – si è ritrovato subito solo: ma non come Carli al caminetto con Scalfari o come Montagu Norman, il leggendario capo della Bank of England che sosteneva di tenere riservate le sue scelte perfino a se stesso. Il presidente della Bce si è ritrovato solo, anzitutto, “come un giocatore di tennis che si alleni contro un muro”, ha efficacemente sintetizzato Alessandro Merli, il Bce-watcher del Sole 24 Ore. Un Federer che – di fronte al Central Court di Wimbledon gremito per il challenge round del Championship – non trovasse nessuno dall’altra parte della rete. Ovvio che potrebbe sfoderare servizi al fulmicotone, facendo magari battere record di velocità alla pallina. Naturale che possa improvvisare numeri da giocoliere: ma da solo non potrebbe mai vincere game-set-match-championship. Soprattutto non potrebbe soddisfare le attese del pubblico: assistere a un match vero e completo, registrare i “reali valori in campo” alla scadenza annuale del torneo, anche scommettere sul vincitore.
Ieri, invece, dopo lo spettacolare azzeramento del tasso di rifinanziamento dell’area euro e l’abbattimento di altri “muri” nella politica di stimolo monetario (come il limite agli acquisti mensili di titoli da parte dell’Eurotower e quello all”ammissibilità di obbligazioni corporate) Draghi si è pure dovuto prendere del “confuso” in conferenza stampa (Darren Williams, economista di AB AllianceBernstein). L’aggettivo può forse avere una sua fondatezza, soprattutto dopo il rapido svaporare del rimbalzo dei listini azonari: ma non per la performance comunicativa del banchiere centrale italiano, solo anzitutto davanti all’Europa a lottare contro la deflazione.
“Confuso” è inevitabilmente lo scenario in cui il presidente della Bce deve esibire colpi sempre più mirabolanti per evitare anzitutto i fischi o le invasioni di campo: chi – se non la solita Bundesbank – ieri in consiglio Bce si sarebbe azzardato a discutere un pacchetto sul quale Draghi aveva posto da settimane un’inequivocabile questione di fiducia? Ma è un fatto (negativo, pericoloso) che vi sia stato costretto. E se tutto il resto in Europa (a cominciare dalle politiche fiscali e da quelle di vigilanza bancaria) non segue la traiettoria dei colpi di Draghi – o peggio: non vi reagisce, “non scende in campo” – la partita della ripresa non verrà neppure giocata. E il rischio è che ci siano solo vinti.