“No, il Montepaschi non è più la prima emergenza del sistema”: è il commento che ai piani alti di Palazzo Chigi e della Banca d’Italia circola da qualche giorno. Un po’ una “promozione sul campo” per Fabrizio Viola, amministratore delegato e risanatore della banca senese; un po’ un segnale d’allarme per quel che sta succedendo in altri quadranti del sistema creditizio italiano, dove le due grandi banche popolari venete sono alla vigilia di aumenti di capitale indispensabili e di ardua attuazione. Per Siena, comunque, una consolazione assai magra.
La Borsa festeggia, ma cosa festeggia? Soltanto l’aria di blitz speculativo che si respira, e non da oggi, attorno ai titoli Mps. In altalena sul listino, con balzi del 10% registrati ieri. Certo, la “supervitamina” somministrata da Draghi al sistema bancario aiuta, ma aiuta tutte le banche. Quel che connota l’andamento nevrotico dei titoli del Monte è però un’altra cosa, più “logica” che vera, almeno per ora: è l’idea che il “peso” dell’istituto nel nostro sistema – è a tutt’oggi terza banca del Paese -, la mancanza di compratori “di mercato” con intenti industriali e non speculativi, e la necessità, da parte del governo, di infondere un po’ di fiducia nel sistema… stiano ponendo le premesse politiche che renderanno possibile un intervento dello Stato. Sarà vero?
Di sicuro se ne parla e se ne scrive. Di sicuro, del resto, è da un anno buono che Viola – e i due presidenti con cui ha lavorato, prima Alessandro Profumo e ora Massimo Tononi – sondano il mercato senza trovare la domanda d’investimento stabile nel tempo che giustamente cercano. E, in mancanza, si riparla dello Stato. Senza smentite. Si dice che Renzi, molto scottato dal filotto di pessime figure inanellate sulle banche, abbia investito la Cassa depositi e prestiti – che in teoria deve obbedirgli – e Banca IntesaSanpaolo, che può serenamente disobbedirgli, di concertare un intervento congiunto sul Monte. La cosa ha un senso, indubbiamente, perché la Cassa ha soldi e Intesa ha competenza. Ma non è facile a farsi come a dirsi. Né verso le autorità europee, che stanno col fucile puntato contro ogni sospetto di “aiuto di Stato”, e un intervento della Cassa in Mps ne avrebbe tutte le sembianze; né verso le Fondazioni bancarie, che con la loro presenza stabile nell’azionariato connotano la Cassa come entità “di mercato” e ne permettono la gravitazione dei conti al di fuori del perimetro del bilancio della “Pubblica amministrazione”.
Senza il consenso delle Fondazioni, la Cassa di fatto non può agire, pena una rottura istituzionale che sarebbe devastante. Sulle Fondazioni regna Guzzetti, su Intesa Sanpaolo pure. Dire che le sorti del Monte siano nelle mani di Guzzetti è una forzatura, ma certo per l’anziano coriaceo avvocato comasco questa è una partita cruciale e delicatissima.
Carlo Messina, del resto – autorevole amministratore delegato di Intesa, candidato sicuro alla riconferma -– ha più volte smentito l’interessamento del suo istituto al Monte. Gli ultimi anni di buona gestione hanno raddrizzato le partite correnti e risanato alcune poste patrimoniale maleodoranti della banca, ma resta un malloppo da 23 miliardi di sofferenze a zavorrare qualunque decollo. Senza capitali freschi servirebbero 30 anni di risultati di bilancio ottimi e costanti i per rilanciare il Monte. Troppo per qualunque investitore “normale”.
Il mercato aspettava la “bad bank”, ovviamente. Che però sembra “desaparecida” dal cruscotto del governo: ovvero sembra potervi rispuntare ma in forma talmente annacquata da non risolvere i problemi gravi del grande ammalato toscano e semmai attutire solo un po’ quelli minori delle banche piccole. Aiuto di Stato un intervento della Cassa, aiuto di Stato la bad-bank. Come se ne esce?
Soltanto con un atto politico che il governo dovrebbe compiere – senza tanta grancassa e senza i soliti toni inutilmente arroganti – a Bruxelles, per rivendicare il diritto dell’Italia di effettuare anch’essa, e comunque su scala infinitamente più piccola, una trasfusione di capitali nel Monte. Concettualmente simile, ma dimensionalmente irrisoria, rispetto ai circa 640 miliardi di euro che nell’insieme gli altri grandi Paesi europei – a cominciare da Germania, Francia e Gran Bretagna – hanno travasato nelle casse delle loro banche tra il 2008 e il 2009, rese esangui del “vizietto” dei derivati finanziari, di cui le nostre erano immuni, mentre l’Italia, con i cosiddetti “Tremonti bonds” si limitava a un ricostituente di neanche 5 miliardi in totale. Cattivo segno essere stati così “primi della classe” rispetto agli altri, e senza nemmeno capitalizzare una sorta di “10 in condotta” da poterci spendere oggi.