Con la giornata di oggi si conclude una settimana importante dal punto di vista delle politiche monetarie delle principali Banche centrali mondiali. Infatti, la conferenza stampa di oggi di Janet Yellen, capo della banca centrale statunitense (Fed), chiude un “trittico”, dopo quella di ieri di Haruhiko Kuroda (Bank of Japan) e quella della settimana scorsa di Mario Draghi (Bce). Giusto dunque fare alcune riflessioni.



Cominciamo da Draghi. In estrema sintesi, il capo della Bce ha adottato un pacchetto di misure di stimolo monetario che vanno ben oltre le attese e il tutto per fronteggiare il netto peggioramento del quadro macroeconomico dell’eurozona. La Bce ha tagliato a sorpresa il tasso di interesse di riferimento allo 0% e i tassi di deposito al -0,4% dal -0,3%. Il marginal lending rate è stato rivisto al ribasso allo 0,25%. Nel piano di acquisto di titoli di Stato, che viene aumentato a 80 miliardi di euro al mese, verranno aggiunti corporate Bond (anche se di investment grade) emessi da aziende non finanziarie. Questa misura ha stupito poiché la sua consorella americana, la Fed, non ha mai osato farlo.



Su queste misure, in particolare quella relativa ai tassi negativi, è lecito avanzare dubbi circa la loro efficacia. È certo che i tassi negativi sui depositi bancari parcheggiati presso la Bce danneggiano le banche. La misura è stata ovviamente presa per spingere le banche a smuovere queste riserve e a prestarle ai loro clienti. Anzi, i costi sui prestiti alle banche da parte della Bce saranno nulli o, addirittura, sarà previsto un “compenso” quanti più prestiti saranno rilevanti, fino a pareggiare il costo dello 0,4% di cui sopra. In poche parole, le banche saranno pagate per fare prestiti.



Ma, rivolgendo lo sguardo a casa nostra, è lecito domandarsi se questa misura avrà un qualche effetto. Infatti, le banche italiane hanno il triste primato di avere la quota maggiore dei crediti non performanti (Npl), pari a circa il 30% di quelli di tutta l’area europea. Per fare qualche numero, la quota dei crediti dubbi sui crediti totali è salita al 17,3% in Italia, mentre la stessa, in Germania, è pari al 2,3%, contro la media europea di circa il 6%. Ora, è ipotizzabile pensare che le banche italiane prestino ai loro clienti solo perché il costo della provvista è zero, o addirittura con un incentivo a loro favore pari a max lo 0,4%, se poi il rischio che sopporteranno sarà di quasi il 20%? Soprattutto poi se le banche partono da una situazione di portafoglio di crediti già erogati con una quota di criticità significativa?

È probabile che questo incentivo non basti. Ma la situazione non riguarda solo le banche italiane. Basta guardare ai bilanci, critici, dei colossi bancari europei, in primis Deutsche Bank, Credit Suisse, ecc., per farsene un’idea. D’altra parte, e per fortuna, dovremmo essere alla fine di questo percorso. Infatti, un suggerimento, forse involontario, da parte di Draghi, in conferenza stampa, circa l’esaurimento del suo “proiettile” rappresentato dai tassi negativi ha mandato “nel pallone” i mercati. Di fatti, un tasso di -0,4% potrebbe essere, considerando la situazione dei mutui dell’area euro, seriamente un valore vicino al limite massimo praticabile.

A proposito di questa non positiva, almeno per chi scrive, politica di tassi negativi, è bene ricordare che le nazioni che l’hanno attuata sono state la Svizzera, il Giappone, la Svezia e la Danimarca, oltre che l’eurozona. In tutti questi Paesi l’impatto sull’attività economica di questa misura è stata assolutamente limitata, poiché, ad esempio, non ha influito, stimolandola, sulla confidenza dei consumatori; sull’andamento, al rialzo, dei prezzi; sul rafforzamento delle prospettive di crescita; sull’andamento delle quotazioni borsistiche che, a eccezione della Danimarca, è stato per lo più negativo. Anzi, se guardassimo alle quotazioni delle azioni del settore bancario in tutti quei Paesi dove queste misure sono state implementate, vedremmo che le stesse sono state danneggiate.

Un chiaro, ulteriore, esempio del fallimento di queste misure è dato dallo Hicp (Harmonised Index of Consumer Prices) che per la seconda volta nell’arco di un anno, ha segnato un valore negativo, pari a -0,2%. Per l’Eurozona, le attese di inflazione sono state costantemente in ribasso lungo tutto l’arco di attuazione delle predette misure; e l’indice manifatturiero è peggiore ora rispetto a quello di un anno e mezzo fa.

La stessa Banca centrale del Giappone, nella sua conferenza stampa di ieri, al termine della sua periodica riunione, ha stralciato dal comunicato finale la frase che diceva che la banca si sarebbe impegnata a un ulteriore taglio dei tassi in territorio negativo. Ha inoltre comunicato, diremmo quasi stranamente, per bocca di un suo membro, Takahide Kiuchi, che la politica dei tassi negativi mette a rischio il funzionamento del mercato finanziario, in particolare del mercato dei titoli di stato giapponesi.

Questa piccola inversione di rotta potrebbe essere spiegata dal fatto che, dall’annuncio della politica dei tassi negativi, i risultati sono stati i seguenti: una valuta più forte (invece che più debole); un sell off sui mercati azionari (invece di un rally); una crescente perdita di potere della cinghia di trasmissione della politica monetaria (effetti che si trasferiscono dalle banche all’economia reale).

Per quanto riguarda poi l’acquisto da parte della Bce dei titoli corporate di società non finanziarie, anche questa misura, almeno per noi italiani, sarà di scarsa efficacia in quanto il numero di società eligibile per questo obiettivo, è relativamente piccolo. Ma, a ogni modo, è la misura in sé a suscitare forti perplessità, almeno a parere di chi scrive, in quanto la Banca centrale interviene pesantemente come terzo operatore “estraneo” agli operatori tipici del mercato obbligazionario, distorcendone le logiche di un corretto funzionamento. In questo la Bce sta seguendo il sentiero della Banca centrale giapponese, che addirittura sta comprando Etf, la quale, appunto, è diventata così il primo operatore, e a volte l’unico, del segmento. L’impressione che ne viene fuori è quella di un mercato “pianificato” e centralizzato piuttosto che un mercato di tipo capitalistico. Se così fosse, il fallimento storico delle economie centralizzate dovrebbe costituire un forte monito e un notevole deterrente a continuare su questa strada.

A ogni modo, data la deteriorata situazione, c’è qualcuno nelle sale operative che consiglia di approfittare del pacchetto Draghi per tagliare l’esposizione sul mercato borsistico.

Dicevo che oggi si conclude la riunione del Fomc, organo di sorveglianza della Fed, e Yellen terrà la consueta conferenza stampa. Le attese sono per il mantenimento dei tassi, e per un messaggio che ribadisce l’intenzione della banca centrale Usa di procedere con la normalizzazione della sua politica monetaria alla luce del venire meno delle tensioni sui mercati finanziari e di un mercato del lavoro in miglioramento. Ma questo permetterà di mantenere il passo di aumento dei tassi, circa 4-5 frazionali incrementi, che la Fed aveva fatto presagire a dicembre scorso?

Nonostante l’allentamento della tensione sui mercati, la situazione interna agli Stati Uniti, a parere di chi scrive, non è sostanzialmente cambiata, anche se il mercato del lavoro, ultimamente, ha risposto con un numero di occupati migliore delle attese, ma con un costo del lavoro più basso. Per questo motivo, se si dovesse continuare a utilizzare il paradigma basato sulla Curva di Phillips, si commetterebbe un passo falso che impedirebbe di non riconoscere la degradata situazione economica sottostante che, se ancora non si può dire, nel suo complesso, in recessione (per questo c’è bisogno di definitive conferme) di certo ne ha assunto tutti i contorni. In fin dei conti, i mesi più plausibili per un ulteriore ritocco in aumento dei tassi potrebbero essere quelli di giugno e dicembre (o solo quest’ultimo).

È bene ricordare che, causa il crollo del prezzo delle commodities, i tassi reali sono già aumentati, per cui, forse, la cosa migliore sarebbe quella di non effettuare alcun ritocco. Anche perché la Fed avrebbe dovuto farlo già qualche anno fa, quando non avrebbe dovuto effettuare addirittura il Qe3. Ma questo è un altro capitolo.