Dati contrastanti sulla performance economica dei primi mesi del 2016. Il Purchasing managers’ index (Indice di acquisto dei manager, Pmi) della società Markit Economics rileva un rallentamento dell’Italia, scesa dal 53,2 di gennaio al 52,2 di febbraio. A gennaio il tasso di disoccupazione rilevato dall’Istat è pari all’11,5%, quasi invariato dallo scorso agosto. Gli occupati crescono dello 0,3%, con 70mila posti di lavoro in più frutto di un aumento dei dipendenti a tempo indeterminato (+99mila) e di un calo di quelli a tempo determinato (-28mila). Il dato definitivo sul Pil italiano nel corso del 2015 secondo l’Istat è del +0,8%. Ne abbiamo parlato con Guido Gentili, editorialista ed ex direttore de Il Sole-24 Ore.



Dagli ultimi dati emerge un inizio anno arrancante. Che cosa può succedere nel corso del 2016?

La decelerazione del Pil è stata evidente già nel corso del 2015, ed entriamo quindi nel 2016 già con una qualche difficoltà. Il dato Istat definitivo, +0,8%, non è il +0,9% previsto nei calcoli del governo, alla base del testo del Def rivisto, ma non è nemmeno lo 0,6% o lo 0,7% diffuso contestualmente al dato dell’ultimo trimestre 2015.



Nel complesso come valuta questo dato?

Il dato definitivo per il 2015 è superiore alle ultime rilevazioni, ma non è comunque una cifra che ci consente di dormire sonni tranquilli. Anche perché i dati sull’occupazione e l’indice Pmi di Markit non ci danno l’idea che stiamo svoltando. Anzi andiamo verso una situazione assai complicata dal punto di vista internazionale e molto difficile per quanto riguarda la deflazione. Su questo fronte il governo, insieme alla prevista crescita dell’1,6% nel corso del 2016, aveva ipotizzato un’inflazione all’1%. Quest’ultimo dato aiuterebbe anche la crescita del Pil in termini nominali, ma sappiamo che in realtà questa inflazione non ci sarà.



Gli occhi dei mercati sono puntati su Draghi. Secondo lei che cosa farà la prossima settimana?

Difficile dirlo. Sicuramente potrebbe esserci un effetto come quello che abbiamo avuto nel luglio 2012, quando Draghi annunciò che avrebbe usato ogni strumento per salvare l’euro: questa dichiarazione fu un momento di rottura che segnò il passaggio da un’era all’altra nella politica monetaria della Bce. Il solo annuncio servì a bloccare la speculazione sui mercati e riportò sotto controllo la situazione dell’Eurozona. Da quel momento c’è stata una politica monetaria più accomodante da parte della Bce, ma sappiamo che via via gli effetti annuncio tendono a ridimensionarsi.

È il momento che Draghi usi il suo “bazooka”?

Non ne sarei così sicuro. Il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, e quello della Banca Centrale Francese, François Villeroy de Galhau, hanno scritto una lettera a quattro mani nella quale si afferma che la politica monetaria della Bce fin qui non è riuscita a risollevare l’inflazione e a sconfiggere la deflazione. Questa è un’affermazione importante che va letta nel senso che possono servire anche altri strumenti. D’altra parte la Bundesbank non è d’accordo su questa politica accomodante della Bce basata sui tassi zero all’infinito. Non so quindi fino a che punto Draghi possa effettivamente tirare fuori il famoso bazooka.

Draghi rinuncerà a intervenire?

Possiamo immaginarci nuove prese di posizione di Draghi con dei provvedimenti ancora più duri. Lo stesso Draghi però negli ultimi interventi ha sollecitato più volte l’Ue e i suoi Paesi membri a invertire la rotta anche con misure strutturali sul piano della crescita quali più investimenti e meno tasse. Il presidente della Bce conosce infatti i limiti della sua stessa politica monetaria.

 

Il G20 di Shanghai ha invitato ad attuare politiche fiscali per la crescita. Non è in contraddizione con l’Ue che continua a invitare a tagliare il debito?

È facile dire che servono più investimenti e meno tasse, ma se poi andiamo a vedere le tendenze reali che si muovono in Europa dobbiamo constatare i risultati modestissimi del piano Juncker, che pure era stato salutato come una svolta nelle politiche della Commissione Ue. In realtà il debito continua a essere il primo fattore di valutazione. Ma lo è non soltanto a livello europeo, bensì anche dei singoli Stati. Le stesse agenzie di rating guardano sempre al fattore del debito con una particolare attenzione.

 

(Pietro Vernizzi)