L’accordo raggiunto con la Turchia sulla gestione dei rifugiati siriani, il classico compromesso europeo, per lo più foriero di nuovi guai, ha dimostrato ancora una volta che la tattica europea di Matteo Renzi non funziona. Il capo del governo aveva minacciato fuoco e fiamme, addirittura il veto con argomentazioni fondate sia sul tipo di accordo, sia sulla credibilità della Turchia (visto quel che il regime di Erdogan dimostra ogni giorno). Invece, il governo italiano ha ingoiato ancora una volta quel che aveva deciso il governo tedesco. E l’Italia, in prima fila davanti all’esodo mediterraneo, l’Italia che dovrebbe ricevere sostegno, anche finanziario, deve pagare la Turchia.



Roma è rimasta sola. Parigi ha fatto di nuovo finta di prendere le distanze, poi si è allineata. Del resto questa è una costante pluridecennale della politica francese. Che si creda o no al “motore franco-tedesco”, non c’è dubbio che la coppia regge superando tutte le crisi ricorrenti. Qui non è questione di tattica, ma di scelta di lungo periodo che oltrepassa i singoli governi e gli schieramenti politici, gaullisti o socialisti, su questo punto non c’è differenza. La strategia francese è una e duratura. Quella italiana è quanto meno biforcuta.



Per molti versi, Renzi ha tratto ispirazione dalla Francia e ha cercato di imitarla. Recupero dell’orgoglio nazionale, difesa di quel poco di sovranità che resta, attivismo, schiena dritta e voce alta. Benissimo. Gli atteggiamenti cauti, diplomatici, pavidi che avevano caratterizzato altri governi non hanno funzionato e non piacciono a un elettorato diventato sempre più freddo se non critico nei confronti dell’Unione europea. Un articolo del Financial Times nei giorni scorsi fotografava molto bene la disillusione degli stessi europeisti d’antan. E tuttavia non basta agitarsi se non si è in grado di indicare chiaramente dove si vuole andare a parare.



Renzi è per l’Europa a più velocità, a cerchi concentrici, o à la carte? È favorevole alla nascita di un nocciolo duro, la Kerneuropa della quale parla da tempo Schaeuble, ed è pronto a far parte del primo cerchio? Che cosa succederà se in Gran Bretagna prevarrà la Brexit? L’Italia è in grado di promuovere una forza di sicurezza comune che guardi i confini in modo da salvare la libera circolazione all’interno dell’area Schengen? Le domande si moltiplicano e ogni volta da Roma arriva un ni, un né né.

Il balletto sulla Libia ha ridotto ulteriormente la credibilità della politica estera italiana. In autunno il governo annuncia che sono pronti cinquemila uomini, ed è tutto un partiam partiamo per Tripoli bel suol d’amore. Poi si fa un passo indietro. Si chiede il comando di un intervento per sostenere un (per ora inesistente) governo di unità nazionale la cui nascita viene annunciata più volte a Roma e da Roma. E arriva un altro passo indietro che irrita gli Stati Uniti il cui ambasciatore chiede a che gioco vuol giocare Renzi. Come risposta c’è ancora una volta un sì ma, un divincolarsi tra i distinguo, a mano a mano che i sondaggi mostrano che gli italiani in Libia non ci vogliono andare e anche il Vaticano prende sonoramente le distanze.

È un tira e molla che vale anche per la politica economica. Renzi vuole più flessibilità, ma non è in grado di presentare un sentiero credibile di riduzione del debito, perché ha deciso per ragioni di consenso politico di non intervenire sulla spesa pubblica corrente tagliabile, tanto da aver cancellato la pur blanda spending review di Cottarelli. Ciò mette a rischio anche la scelta, giusta e condivisibile, di ridurre la pressione fiscale (di questo si tratta, non basta tagliare qualche aliquota qua e là, bisogna abbassare il peso delle imposte sul reddito delle famiglie e delle imprese) che resta la via maestra per tornare a crescere.

Sono osservazioni fuori dalla realtà? Nient’affatto. Sono ingenerose verso un governo che almeno si è dato una mossa? Nemmeno. Quel che serve non è né un atteggiamento muscolare, né di fare le bizze come gli adolescenti irrequieti. Al contrario, il governo italiano deve elaborare una coerente politica europea, estera ed economica, presentarla in parlamento, discuterla, costruire attorno a essa il consenso nazionale. Non saranno tutti d’accordo è chiaro, non gli euroscettici, non Salvini e nemmeno Grillo. Ma oggi come oggi esiste una maggioranza abbastanza solida per una via italiana all’Unione europea, basata sul realismo e sulla credibilità, non su generiche minacce e vaghe promesse, ma su atti concreti.

Si può difendere l’interesse nazionale dentro la cornice europea, in fondo questa è stata, oltre gli zig zag e la politica dei due forni, una costante della politica estera italiana fin dai tempi di De Gasperi, alla quale non hanno derogato i comunisti quando sono entrati nella maggioranza negli anni ‘70, tanto meno quando sono andati al governo come ex comunisti. Lo dimostra, del resto, perfettamente Giorgio Napolitano. Bisogna uscire naturalmente dalle definizioni astratte ed entrare nel concreto. Questo è il compito di palazzo Chigi che, del resto, si sta circondando di consulenti, consiglieri, trust di cervelli. Speriamo che tutto questo mulinare di rotelle e fremere di materia grigia partorisca presto qualcosa di credibile.