La riforma del Credito cooperativo è un cantiere aperto da 14 mesi, fra ritardi e rinvii, sorprese e polemiche. Ma ora, salvo ultimi colpi di scena, il cantiere verrà chiuso e l’edificio consegnato. Il decreto-banche – imperniato sul riassetto normativo e organizzativo delle 370 Bcc italiane – approda nelle prossime ore nelle aule parlamentari per la conversione finale. Il testo che giunge al voto è diverso da quello uscito a tarda notte sei settimane fa, dopo un Consiglio dei ministri insolitamente concitato: principalmente per via di una norma inserita all’ultimo dalla Presidenza del Consiglio su pressione di alcune Bcc toscane resistenti alla prospettiva del Gruppo unico.  



Il silenzio della Federcasse, presieduta da Alessandro Azzi – al di là di una cautela divenuta ormai regola sul dossier – lascia intendere un esito finale accettabile. La più importante riforma economica varata dal governo Renzi dopo il Jobs Act sta dunque vedendo la luce in modo sufficientemente condiviso fra il sistema, il Governo, il Parlamento, le autorità monetarie. Il Credito cooperativo “di terza fase” – come l’ha sempre definito Azzi – sembra quindi poter cominciare il suo cammino entro binari certi nella forma, ma soprattutto coerenti nella sostanza.



Nel merito, il più importante nodo da sciogliere in sede di conversione del decreto riguardava la cosiddetta “clausola di trasformazione” (way out): la possibilità di una Bcc di trasfomarsi in Spa (sottraendosi alla riforma della governance e all’inclusione nel gruppo unico) mantenendo le riserve patrimoniali accumulate nel tempo. In gioco venivano messi valori accantonati da generazioni di cooperatori in agevolazione fiscale a beneficio della banca e della sua continuità nelle future generazioni: non perché in un certo momento qualcuno se ne appropriasse arbitrariamente spostando la finalità dal no-profit al lucro.



L’ipotesi del governo prevedeva la facoltà di affrancare le riserve con il pagamento di un’imposta forfetaria del 20%: ma soltanto per le Bcc con patrimonio superiore ai 200 milioni (14, di cui la larga maggioranza già disinteressate). Il suggerimento era giunto al sottosegretario alla Presidenza Luca Lotti dall’ex senatore Pd Nicola Rossi, in veste di consulente della Bcc di Cambiano, in provincia di Firenze. Federcasse ha contestato frontalmente: le riserve “indivisibili”, oltre a non poter essere “scippate”, non appartengono neppure allo Stato, ma potrebbero essere al massimo devolute ai fondi per lo sviluppi della cooperazione.

Il compromesso finale (almeno a oggi) conferma la possibilità di trasformazione in Spa attraverso lo scorporo dell’azienda bancaria in una Spa, con il pagamento della sostitutiva al 20%. Le riserve, tuttavia, dovrebbero essere mantenute alla cooperativa, che evolverebbe verso la funzione di holding. Questo – oltre a rispettare la tutela costituzionale dei principi della cooperazione – dovrebbe disincentivare fughe troppo disinvolte dal sistema: disegni forse più cari a qualche manager che a qualche presidente di Bcc; e disegni che comunque saranno attentamente monitorati dalla vigilanza bancaria nazionale. In più l’opzione di abbandono andrà comunicata alla Banca d’Italia entro il termine stretto di 60 giorni dalla conversione del decreto: evitando quindi che il percorso possa essere intrapreso da altre Bcc attraverso fusioni decise successivamente.

Il passaggio parlamentare ha consentito di recuperare anche la possibilità di creare un gruppo autonomo (ma “coeso” con quello nazionale) per la Casse Raiffeisen della Provincia di Bolzano. Non da ultimo un emedamento bipartisan alla riforma prevede l’introduzione di un “Fondo temporaneo delle banche di credito cooperativo”, un ammortizzatore strutturale per agevolare la fase transitoria verso il Gruppo Cooperativo e facilitare processi di concentrazione consolidamento.

Il dato politico non è meno importante di quello economico e merita una sottolineatura. La riforma delle Bcc è maturata per larghissima parte come autoriforma. Ha preso le mosse da una rara rinuncia del governo Renzi a intervenire con logica rottamatoria (e a un anno di distanza la volontà di procedere invece per diktat sulle grandi Popolari sembra imporre qualche riflessione ulteriore). Il movimento-sistema del Credito cooperativo – uno dei più importanti e radicati corpi intermedi del sistema-Paese – ha fornito una risposta adeguata: in sei mesi è stato approntato un pacchetto organico di misure di cambiamento, totalmente condiviso con ministero dell’Economia e Bankitalia.

Nonostante un complesso confronto interno, Federcasse non ha mai perso compattezza: la riconferma di Azzi alla presidenza e l’annuncio programmatico di Federcasse, Iccrea Holding e Cassa Centrale di Trento sulla volontà di costruire il Gruppo Bancario Cooperativo ne sono stati i segnali esterni più forti. Segnali chiari cui è stato certamente molto attento un Parlamento nel quale la cooperazione alimenta tradizionalmente una rappresentanza civile trasversale agli schieramenti politici. Questo non poteva non pesare e ha pesato: anche Palazzo Chigi (un po’ attardato dalle resistenze di poche Bcc toscane, da sempre lontane da Federcasse) alla fine ci si dovuto misurare.

Se la particolare congiuntura politica ha imposto un’insolita presa di posizione di 20 senatori della minoranza Pd, alla fine contano però i risultati. E la “lezione” – tutt’altro che marginale – della riforma delle Bcc è che una vera svolta-Paese, in una democrazia avanzata, continua a essere possibile soltanto se società, mercato e istituzioni lavorano assieme: per (ri)costruire, non per distruggere.