Negli ultimi giorni, gli organi di governo delle principali banche centrali dei Paesi avanzati a economia di mercato si sono riuniti e hanno definito i lineamenti delle loro strategie a breve e medio termine. Il 10 marzo, la Banca centrale europea ha approvato un programma innovativo di misure monetarie “non ortodosse”, specialmente mirate a facilitare quegli istituti bancari dell’area dell’euro che estenderanno prestiti a imprese e famiglie nella speranza di facilitare la ripresa dell’economia dell’eurozona o almeno a evitare che cada in una nuova recessione o, peggio ancora, in deflazione. Tali misure sono state esaminate in dettaglio su questa testata.
Sinora il Quantitative easing della Bce ha dato risultati inferiori alle aspettative. Non sembra affatto prossimo all’obiettivo di riportare l’inflazione nella zona euro a un tasso annuo del 2%, il vero indicatore di ripresa di consumi e investimenti. Nei 12 mesi terminati il 29 febbraio scorso, al contrario, il tasso armonizzato dell’indice dei prezzi al consumo nell’area ha subito una contrazione dello 0,2%. Se l’indice viene depurato per togliervi prodotti molto sensibili a tendenze di breve periodo (petrolio, alimentari), c’è stato un aumento, ma appena dello 0,7% (e quindi sempre molto distante dall’obiettivo del 2%).
Ci sono stati leggeri segni molto fragili di miglioramento dell’economia reale. Lo suggerisce anche il fatto che le indicazioni positive dei primi mesi del 2015 (quando il Pil dell’area cresceva allo 0,5%, cioè a un tasso annuale del 2,2%) sono state smorzate nell’ultimo trimestre dell’anno scorso: una crescita appena dello 0,2% che, se proiettata all’intero 2016, suggerisce per quest’anno un aumento del Pil solo dell’1,1% per l’intera zona euro. In breve, l’iniezione monetaria appare avere modesti effetti su prezzi e crescita.
Uno studio della Cgia di Mestre documenta che parte della responsabilità è dei grandi istituti bancari che non avrebbero convogliato verso le aziende gli 87 miliardi di titoli pubblici convogliati dalla Bce all’Italia, mentre nello stesso periodo i prestiti degli istituti di credito alle imprese sono diminuiti di 15 miliardi di euro (rispetto ai 12 mesi precedenti). Le cronache delle ultime settimane suggeriscono che numerosi istituti hanno utilizzato il Qe per “ripulire” i loro conti da crediti deteriorati piuttosto che per nuove attività. Tuttavia, questa è solamente una delle componenti. Anche in Germania e in Francia, dove le previsioni di crescita economica per il biennio 2016-2017 sono più favorevoli che in Italia e dove i prestiti alle società non finanziarie sono aumentati negli ultimi 12 mesi, l’inflazione è prossima allo zero (+0,2% per i consumatori tedeschi e +0,1% per quelli francesi).
Il 15 marzo, dopo due giorni di intense discussioni, il direttorio della Bank of Japan ha deciso di mantenere la politica di tassi d’interesse negativi annunciato lo scorso gennaio. Sulla decisione hanno certamente influito le misure prese dalla Bce. In effetti, la politica di tassi d’interesse negativi non ha riscosso consensi in Giappone perché le banche hanno nel contempo aumentato le loro commissioni (per compensare la riduzione dei loro utili). Lo stesso Primo Ministro Abe ha preso le distanze dalla BoJ: avrebbe preferito un aumento degli acquisti di titoli di Stato piuttosto che una maggiorazione dei tassi d’interesse negativi (ora i tassi sui depositi sono -0,1%) per avvicinarli a quelli della Bce (-0,4%). Presa tra due fuochi, dunque, la BoJ ha posposto una decisione d una delle prossime riunioni del direttorio, forse a fine aprile o più probabilmente in giugno.
In effetti, è possibile che la BoJ faccia un passo indietro. Dai comunicati, traspare non solo che c’è stato un vivace dibattito intenso, ma che nelle ultime settimane le prospettive economiche non sono migliorate ma peggiorate, nonostante in Giappone le “misure eccezionali monetarie” siano state sostenute da una politica di bilancio accomodante e da un contenimento significativo dei salari reali. Nel contempo, anche nel Sol Levante il tasso di aumento dei prezzi al consumi resta distante dall’obiettivo di una crescita del 2% l’anno. Nell’immediato non si saranno verosimilmente reazioni sui mercati finanziari e sui cambi. È indubbio, però, che crescono i dubbi sull’efficacia della politica monetaria, pure se sorretta da una politica di bilancio compiacente.
Il 16 marzo anche la Federal Reserve ha deciso di non toccare per il momento i tassi. La decisione è arrivata in Europa in serata (a causa del fuso orario), ma già a metà giornata la pubblicazione delle previsioni macroeconomiche del servizio studi della autorità monetaria Usa avevano mostrato che l’economia americana sta per rallentare il proprio passo. Occorre chiedersi quanto sono vicine le autorità monetarie Usa a centrare il doppio obiettivo di raggiungere, contemporaneamente, la piena occupazione e un tasso d’inflazione del 2% l’anno. Ha più o meno colto il primo dei due: il tasso di disoccupazione è appena il 4,9% l’anno. Dopo essere stati “piatti” per tutto il 2015, i prezzi danno segni di movimenti al rialzo. Secondo l’indicatore preferito dalla Federal Reserve, la core inflation, ossia i prezzi al consumo depurati dai movimenti dei prezzi degli alimentari e dell’energia (ambedue molto volatili), viaggia all’1,7% l’anno. Tuttavia gli americani sono diventati assuefatti a prezzi stabili e le indagini campionarie sottolineano che le aspettative dei consumatori sono che i prezzi riprenderanno presto a scendere. Nonostante il buon andamento recente, i mercati finanziari sono preoccupati del quadro internazionale. Quindi, per due giorni il Fecom (Comitato Federale per le Operazioni sul Mercato Aperto) si è interrogato, decidendo, alla fine, di non fare nulla per il momento, in attesa che la freccia del tempo fornisca informazioni più solide. Si sta, però, preparando a dare un segnale in giugno o settembre.
Dato che la Banca centrale giapponese è giunta a decisioni simili il 15 marzo e che il 10 marzo la Bce ha essenzialmente aumentato la dose del Qe, pur introducendo qualche novità, vale la pena chiedersi se l’immobilismo non è una confessione dei propri limiti da parte delle autorità monetarie.
Pochi leggono i documenti della Banca dei regolamenti internazionali con sede a Basilea. L’ultima rassegna trimestrale (diramata a metà marzo) contiene un saggio illuminante di due suoi economisti, Morten Bench e Aytek Malkhozov. Lo studio – How Have Central Banks Implemented Negative Policy Rates?- giunge a conclusioni interessanti: le misure sono state innovative, ma non le modalità di attuazione. Tali modalità non solo hanno un costo che pesa sulle riserve delle banche centrali, ma l’esperienza suggerisce che tassi d’interesse leggermente negativi non hanno effetti significativamente differenti da quelli di tassi d’interesse leggermente positivi. Soprattutto perché “c’è grande incertezza in materia di quello che sarebbe il comportamento di individui e istituzioni ove i tassi continuassero a essere negativi (o comunque prossimi allo zero) per periodi prolungati”.
Sembra un rilievo tecnico, ma è a mio avviso di centrale importanza. Sinora si è sostenuto che le banche centrali navigano nell’incertezza a ragione della globalizzazione e delle tensioni politiche internazionali – si legga, ad esempio, il saggio di Karnit Flug Central Banks and Policy Tools: Conceptual Changes as a Result of the Global Financial Crisis nel fascicolo di marzo della “Israel Economic Review” –, ma ora gli stessi istituti d’emissione dubiterebbero della loro cassetta degli attrezzi. L’avvertimento viene dalla Bri. Quindi va meditato sul serio.