Trentuno morti. 31. Corpi senza più calore: mariti, mogli, padri, madri, figli. Morti, perché? In casi come questi la reazione pavloviana alla Ferrara o alla Fallaci è la più comoda, te la prendi con gli islamici e via: ma non sono state le ricette neo-con seguite all’11 settembre ad averci messo in questo casino, o sbaglio? Questi guardiani dell’Occidente non hanno nulla da dire sui rapporti del loro padrone di riferimento, gli Usa, con l’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo, i veri finanziatori del terrorismo sunnita in mezzo mondo? No, a loro piacciono le semplificazioni, le idiozie del tipo “non tutti gli islamici sono terroristi ma tutti i terroristi sono islamici”. Al di là che per un trentennio tutti noi avremmo potuto pagare il prezzo di questa semplificazione a causa dei cattolicissimi guerriglieri dell’Ira, vorrei che mi dessero una spiegazione alla tabella a fondo pagina: al netto degli attacchi di Parigi del 2015, chi ha ucciso chi nel 2014? Islamici che hanno ucciso altri islamici, nel disinteresse dei nostri sederini al caldo. E ancora, sapete dove si trova la più grande moschea d’Eurasia (io non credo all’Ue, credo a un’Europa che contempli i Balcani e la Russia)? A Mosca, per espressa volontà di Vladimir Putin. In tutto il territorio russo le moschee non si contano e la nutrita presenza musulmana non costituisce affatto un problema. Se ne desume che il problema di fondo non è – come i Ferrara sostengono – l’Islam in quanto tale, diversamente quel che accade oggi in Europa accadrebbe anche in Russia.
Il focolaio terroristico “islamico” che si trovava in Cecenia è stato domato con i carri armati e i missili, riducendolo a un posacenere: uno Stato che che fa lo Stato opera così. L’ordine è stato ristabilito e a capo della Cecenia ora c’è un musulmano tra i più fedeli sostenitori di Putin e dell’attuale ordine russo. Chissà chi ha finanziato e addestrato quei simpatici terroristi islamici che Putin ha spazzato via come briciole dalla tovaglia in Cecenia? Ve lo siete mai chiesto? Io so soltanto che Abu Omar al-Shishani, meglio conosciuto come “Omar il ceceno” e ministro della Difesa dell’Isis, lo scorso 14 marzo è stato dichiarato clinicamente morto a seguito delle ferite riportate durante un raid Ua del 4 marzo. Peccato che il 27enne al-Shishani in realtà si chiamasse Tarkhan Batirashvili e fosse georgiano, per l’esattezza dell’enclave cecena di Pankisi. Ecco come ne parlava Michael Cecire, analista di fenomeni estremistici presso il Foreign Policy Research Institute di Philadelphia: «Più di chiunque altro, Batirashvili ha legittimato l’Isis nei circoli di militanti nel Caucaso attraverso il potere delle sue azioni, ovviamente poi amplificate dalla propaganda del Califfato». Tra i suoi successi, la cattura della base aerea di Menagh dopo due anni di attacchi andati a vuoto. Bene, ecco invece la parole di un ufficiale dell’esercito georgiano: «Lo abbiamo addestrato bene e gli americani ci hanno aiutato molto. Infatti, l’unica ragione per cui non è andato a combattere in Iraq accanto agli Stati Uniti è perché avevamo bisogno delle sue abilità qui in Georgia». Ecco invece il ricordo di un commilitone: «È stato un soldato perfetto fin dal primo giorno. Le unità delle forze speciali Usa ci hanno addestrato molto bene tutti, ma lui era il pupillo, la star». Quindi, non solo gli Usa hanno addestrato oltre 80 militari georgiani d’elite subito prima del tentativo di assalto all’Ossezia, poco gradito a Putin, ma uno di loro, il pupillo, è diventato addirittura ministro della Difesa dell’Isis in Siria. Ma ora è clinicamente morto, quindi è come se non fosse esistito.
Sono tante le domande da farsi in questi giorni, cari amici. E partiamo da tre giorni fa, non fa ieri. Partiamo da Salah Abdeslam, la mente delle stragi di Parigi del 13 novembre scorso, ricercatissimo a tal punto da dover essere in Siria nei ranghi dell’Isis. Invece era nel quartiere dov’è nato e vissuto, Molenbeek, a Bruxelles, proprio la città dove ieri è esplosa la bomba nella metropolitana.
Del resto anche il 14 novembre 2015, dopo che lui e la sua banda jihadista avevano compiuto le stragi del Bataclan e del Caffè Voltaire, più quella mancata allo Stade De France, era scappato con i complici a Molenbeek da Parigi. Tre ore di auto, la macchina viene fermata dalla polizia a Cambrai e lasciata ripartire verso il Belgio, perché a quell’ora – dice la versione ufficiale – non erano ancora ricercati. E Salah dà all’agente persino il suo indirizzo di Molenbeek. D’altronde, perché avrebbe dovuto riparare in Siria, visto che la sua missione di morte doveva concludersi con il sacrificio del suicidio e invece era ancora vivo e vegeto: forse qualcuno dell’Isis, se davvero fosse stato un affiliato, gliene avrebbe chiesto conto. Meglio stare lontano dalla Siria, quindi. E infatti è rimasto a casa sua, indisturbato.
E la notte tra il 15 e il 16 novembre 2015, addirittura, la polizia belga localizzò Abdeslam in un strada di Molenbeek. Perché non lo hanno arrestato? Perché per la legge belga non si possono far irruzioni poliziesche tra le 23 e le 5 del mattino, si disturba il vicinato. Così il mattino dopo, fatta irruzione in vari appartamenti, il capo terrorista non si trova più. E come scappa? Dentro un armadio nel corso di un trasloco. L’altro giorno, poi, la cattura. In seguito alla quale la Procura belga rende noto che erano in preparazione nuovi attentati: alzato il livello di allarme in città? No. Casualmente, ieri, botto all’aeroporto e nella metropolitana. Oltre ai 31 morti, qui se c’è una vittima è la sicurezza dei belgi, lasciata in mano – nella migliore delle ipotesi – a degli incompetenti ma nella peggiore – e temo non troppo peregrina – a dei complici, quantomeno inconsapevoli.
Ho cominciato a frequentare Bruxelles per lavoro una decina di anni fa e già allora in certi quartieri era meglio non entrare se si era bianco ed europeo, non è una novità degli ultimi anni la presenza di ghetti fuori controllo in città e la difesa di Salah posta in essere dai suoi amici di quartiere durante il blitz e l’arresto lo testimonia. Chi ha permesso però che questo potesse accadere? Forse il buonismo ipocrita di chi, anche tra i cattolici, è così cieco da non capire che l’accoglienza a tutto tondo e senza limiti può permettersela solo papa Francesco dal suo bunker vaticano? Nella vita reale servono leggi e regole, altrimenti si salta in aria mentre si attende la metro per andare al lavoro.
Però qualcosa non torna: com’è stato possibile un attentato simile, subito dopo l’arresto di quello che per tutti era il capo cellula dei jihadisti di Bruxelles? Che tipo di reattività militare ha questa gente, degna di un esercito in piena regola? Colpire con la guardia alzata al massimo non solo in aeroporto con un tipo di attacco da forze speciali e non da squilibrati islamici e poi proprio nel cuore della città. Signori, al netto dell’incapacità conclamata della polizia e dell’intelligence del Belgio, a Bruxelles hanno sede la istituzioni europee e la Nato, ci sono i servizi di tutto il mondo attivi. A Bruxelles, non più tardi della scorsa settimana, si sono riuniti Paesi Ue e Turchia per decidere l’accordo sui profughi, con Ankara che ha ottenuto ciò che voleva, in primis il raddoppio degli stanziamenti, da 3 a 6 miliardi. E cos’ha detto quattro giorni fa il buon Erdogan, presidente della Turchia, dopo l’ennesimo attentato ad Ankara subito attribuito alla guerriglia curda? «Non c’è ragione per cui la bomba esplosa ad Ankara non possa esplodere a Bruxelles o in ogni altra città europea. I serpenti con cui state dormendo possono mordervi in ogni momento ma nonostante la chiara realtà, le nazioni europee non stanno prestando alcuna attenzione, mentre danzano su un campo minato». Sul sito di Newsweek potete trovare conferma. Non potrebbe essere magari un avvertimento turco, visto che solo il giorno prima gli europei ci avevano ripensato e si erano detti non troppo convinti di accettare i suoi ricatti sui profughi? O magari la colpa europea è stata quella, sempre lunedì, di non aver accettato l’idea di una no-fly zone in territorio siriano, motivo per cui arrivano i profughi.
Non è che se la tregua regge, gli altarini saltano fuori: lunedì sera a Piazza Pulita, Edward Luttwak ha detto chiaramente che per mesi e mesi la polizia turca ha lasciato che scafisti e trafficanti comprassero indisturbati ogni tipo di natante. E uno come Luttwak è tutto tranne che un complottista, è il realismo cinico fatto persona. O forse ancora potrebbe essere utile spargere terrore per arrivare a una mega-lista di associazioni fuorilegge che contempli tutti i movimenti curdi, anche quelli politici non armati, al fine di bloccare il progetto di indipendenza curdo-siriana già in atto e chiudere per sempre i conti con chi l’Isis, che ha rivendicato subito gli attacchi di Bruxelles, lo combatte davvero e sul campo. Ma state certi che al di là delle lacrime e dei bei discorsi sull’unità dei vari leader politici, questo attentato è una manna per la retorica europeista in un periodo in cui il Re si dimostrava giorno dopo giorno sempre più nudo: ora sospendere o cancellare Schengen non sarà un fallimento del progetto europeo, ma una necessità che i cittadini non solo capiranno ma auspicheranno. Ora progetti liberticidi come la legislazione d’emergenza in atto in Francia – e posta in Costituzione – diventeranno la norma in tutti gli Stati europei, visto che ieri il buon Manuel Valls, premier francese, ha tenuto a ribadire subito che «siamo in guerra». E in guerra non si fanno tante domande.
Ad esempio, non ci si chiede perché il 13 novembre, dopo il fallito attacco allo Stade de France, Francois Hollande sia corso all’Eliseo a firmare la legge sullo stato di emergenza, stranamente già pronta e prima che venissero attaccati il Bataclan e il Cafè Voltaire. Sapete a cosa ha portato? A 400 perquisizioni e 400 sorvegliati. In tre mesi. Pensate che Parigi sia più sicura oggi di quanto non fosse a novembre? No, è solo più controllata, in senso orwelliano. In compenso, poi, abbiamo personaggi patetici come il premier belga, Michel Charles, il quale ha dichiarato: «Quello che temevamo, si è avverato». Complimenti, uno statista. Ma sapete quali vulgate circolano in giro, nei circoli e nelle consorterie che contano? Quelle in base alla quale l’invasione di profughi – e con essa l’infiltrazione di terroristi – sia una precisa strategia di Vladimir Putin con lo scopo di rovesciare Angela Merkel. A dirlo, chiaramente, è stato Janis Sarts, direttore dello Strategic Communication Centre of Excellence della Nato con sede a Riga, in Lettonia. Di fatto, un avamposto militare e di intelligence Usa in piena regola che a Bruxelles conta più di tutti gli Stati membri messi insieme. D’altronde, come non sposare questa tesi quando il primo a sostenerla è stato nientemeno che il generale Philip Breedlove, comandante supremo della Nato: «La Russia e Assad stanno deliberatamente trasformando in arma la migrazione allo scopo di sopraffare le strutture europee».
Non è che a questi attentati, chiunque li abbia perpetrati, seguirà un’ondata di ricerca di sicurezza, benedetta e ben accolta dalla paura dei cittadini che rivedono nei 31 morti di Bruxelles i propri familiari intenti a prendere la metro o l’aereo? Non ci vorrà, magari, un ministero europeo della Sicurezza, confini europei, intelligence europea, legislazioni di emergenza, financo un esercito europeo? Una sola cosa è certa, oltre al sangue innocente versato e per cui prego: questi attentati ci diranno che ci vuole più Europa. La stessa che li ha resi possibili.