In “Dieci anni tra Roma e Washington”, le sue memorie affascinanti, edite da Mondadori nel 1955, Alberto Tarchiani ricorda con straordinaria efficacia euristica, da grande diplomatico e da grande antifascista patriottico qual era, che cosa successe alle Nazioni Unite nel 1949, allorché si votò per indicare il percorso di ricostruzione della Libia dopo la sconfitta italiana e il ritorno in grande stile dei francesi e degli inglesi, unitamente agli Usa, in quel lembo di deserto immenso e di civiltà urbane rarefatte da cui era scaturita la rivolta contro il dominio coloniale italiano.



Sforza e Bevin, nel corso di lunghe trattative diplomatiche, appena finita la guerra, con un forte appoggio e impegno di un De Gasperi sconfitto ma non domo, così come s’era presentato sin da subito sulla scena internazionale, avevano concordato di iniziare la ricostruzione affidando alla Francia il protettorato del Fezzan, all’Inghilterra quello della Cirenaica e all’ Italia la Tripolitania. Arturo Desio, prima della fine della guerra, aveva, da grande geologo qual era, scoperto immensi giacimenti di petrolio che proprio in Tripolitania potevano iniziare a essere sfruttati. Di tutto ciò i servizi segreti inglesi erano al corrente. La divisione della Libia in uno Stato federale era la soluzione più favorevole agli interessi italiani.



Fu singolare il fatto che la soluzione non fu raggiunta per un solo voto: quello del delegato di Haiti che si assentò perché… ubriaco. Si seppe poi che i servizi inglesi erano stati i fornitori non solo di abbondanti dosi di whisky. Giunse così di nuovo in Libia la dinastia senussita, che del resto ne aveva tutta la legittimità (la possiede anche oggi e dovrebbe essere ben valorizzata…) per via non solo però dei suoi meriti nella sua lotta contro gli invasori italici, ma soprattutto – a quel tempo – per gli ottimi rapporti con il Regno Unito.

Nonostante questo tentavo di strappare all’Italia il controllo sulle risorse petrolifere, il colpo di stato di Gheddafi e insieme la lucida spregiudicatezza di Mattei consentirono all’Italia di divenire il principale soggetto di sviluppo dell’industria degli idrocarburi fossili in quella martoriata regione del mondo dove 150 tribù oggi non riescono più a ritrovare un punto di unità. In fondo la caduta di Gheddafi, la sua uccisione efferata, altro non sono stati che un nuovo tentativo – questa volta terribile – della Francia, del Regno Unito e degli Usa, di cacciare l’Italia dalla Libia o di grandemente limitarne il ruolo e di giocare da dominatori incontrastati del destino dell’Africa del Nord e di quella subsahariana sino al cuore profondo del Congo, dal cui controllo si giunge al dominio del mondo.



Ma potremmo ricordare altre vicende: l’assassinio da porte dell’Oas dei fascisti francesi (gli stessi che attentarono a De Gaulle negli stessi giorni) di Mattei, la cacciata di Ippolito manu magistrato dalla ricerca sul nucleare, la sconfitta di Schimberni e la cacciata dell’Italia dalla chimica etilenica e da quella di grande valore aggiunto delle grandi imprese nazionali, la morte di Adriano Olivetti dinanzi agli occhi asciutti di una famiglia ostile e di un gruppo legato al capitalismo internazionale franco-anglosassone come Mediobanca sempre ostile alla nostra predominanza nella nascente industria informatica e di tutte quelle strategie che avrebbero consentito di creare una nuova Italia libera e forte.

La tela della disgregazione del valore umano e capitalistico dell’industria italiana continua ancora oggi con la sottomissione al capitalismo francese dell’industria delle telecomunicazioni. Un’industria in cui abbiamo avuto posizioni di eccellenza da sempre, a cominciare dalla grande avventura pirelliana pre-tronchettiana dei cavi sottomarini e continuata con l’invenzione della telefonia mobile sotto le ali di una grande impresa pubblica come l’Iri: prima delle privatizzazioni eravamo i primi al mondo. Poi arrivò la globalizzazione subalterna voluta dai Ciampi e dai Padoa-Schioppa, applauditi da una sinistra che ora discute di stupidaggini invece che farsi l’autocritica.

Non vi è nulla di nuovo nell’arrivo di Bollorè in Italia come un protagonista indiscusso. In fondo è una vicenda che inizia dall’Ottocento, quando il grande Camillo Benso Conte di Cavour era così consapevole da preferire gli inglesi ai francesi, da buon massone di rito scozzese accettato qual era, e quindi consapevole che l’Unità d’Italia non poteva che essere raggiunta se non con la forza della diplomazia internazionale: Francia e Inghilterra si son sempre combattute sul nostro suolo come dimostrò del resto la presa di Porta Pia, che sancì la fine del potere temporale dei Papi, non a caso sostenuti in funzione anti-inglese dalle truppe francesi.

Ora non ci sono più truppe e battaglie in Europa: ora sono in Africa. Non c’è bisogno di lottare per la Repubblica Romana con i gloriosi fratelli Cairoli. Ma esistono pur sempre italici che invocano lo straniero: in questo caso Mediaset e il suo dominus Berlusconi, del resto incostituzionalmente privato del potere politico per aver contrastato – pensa un po’- il potere sovra-nazionale degli inglesi, dei francesi e degli Usa. Dove? Ma in Libia, guarda caso. L’accogliere Gheddafi come un ospite di eccezione, pacificare le ere post-coloniali baciando la mano del figlio del Leone del Deserto che il generale Graziani giustiziò con inaudita ferocia costò al Cavaliere la perdita del potere politico. E all’Italia la perdita della presenza pacifica in Libia come industria dominante e non secondaria.

Il governo Renzi sembrava seriamente consapevole di queste problematiche. Ma evidentemente nell’ultimo incontro di Venezia con Hollande qualcosa non è andato per il verso giusto e la partita franco-italiana si è riaperta in Libia con la nostra sconfitta e in Italia con la perdita del controllo nazionale della Telecom, industria strategica per eccellenza e su cui già tutto si è detto, dalle reti con i nostri segreti e con i nostri apparati di sicurezza che vanno condivisi e non conquistati… La mia speranza è che si sia chiesto qualcos’altro in cambio come si fa o si faceva nella vecchia diplomazia economica e politica di un tempo.

La vicenda Telecom è un segmento di una storia infinita che inizia con gli Sforza, Machiavelli e Guicciardini. Tutto si risolve sempre o nella vittoria del realismo eroico dei Machiavelli oppure nella deferenza astuta ma subalterna di Guicciardini… entrambi fiorentini…