Di solito si fa di tutt’erba un fascio. Invece sarebbe utile, anche a fini disciplinari (ossia di cosa si insegna nelle università) distinguere tra a) la finanza del terrorismo e b) l’economia del terrorismo. La prima studia come individuare i canali tramite i quali il terrorismo si finanzia e, ove possibile, stroncarli. La seconda indica come utilizzare la strumentazione della disciplina economica per combattere il terrorismo. Le indicazioni dell’esistenza di focolai terroristici in Italia, in particolare a Milano, dovrebbero indurre a pensare all’istituzione di un apposito ruolo per gli specialisti di finanza nei servizi segreti italiani. Da tempo si sa che l’economia “sommersa” è una delle fonti privilegiate perché il terrorismo trovi finanziamenti anche in Europa (e in Italia in particolare, a ragione della proporzione del sommerso nel Pil).
Quando il terrorismo era di matrice Al-Qaeda, un’analisi di Tolga Koker (Yale University) e Karlos Yordan (Drew University) tracciava la geografia economica di un fenomeno poco studiato: la micro-finanza del terrorismo che spesso si annida in una rete articolata e molto diffusa (orchestrata da Al-Qaeda) dietro il paravento di fondazioni e associazioni ufficialmente a scopo caritatevole. Ciò non vuol dire – si badi bene – che tutte le moschee sono ruscelli che alimentano il fiume e il mulino del terrorismo. Ciò significa, però, che attorno a moschee si sviluppano fonti di finanziamento singolarmente forse modeste, ma che rappresentano un sostegno importante per una rete disseminata sul territorio. La strumentazione economica, aiutando a comprendere come funziona il sistema (ci sono molte analogie con l’impresa-rete su cui proprio in Italia sono stati effettuati lavori pionieristici), è un ausilio importante agli “operativi” che devono cercare (anche infiltrandosi nella rete) di bloccarne tempestivamente le azioni.
Le fonti principali, però, erano, e in parte sono ancora, i Paesi arabi, “amici” (anche se formalmente alleati con l’Occidente) che supportavano le fondazioni menzionate (a volte in quanto integralisti, a volte perché sotto ricatto). In questo senso la riunione annuale della World Islamic Banking Conference (l’ultima si è svolta lo scorso dicembre a Manama, capitale del Bahrein), è una sede importante di raccordo in cui tra una preghiera e l’altra e tra un tè e l’altro, si parla d’affari. L’associazione conta conta ben 32 istituzioni bancarie islamiche ed è da anni sede dei più importanti organismi internazionali per lo sviluppo della finanza islamica nel mondo: l’Aaoifi, che promuove standard unici per i principi contabili e di governance per le banche che seguono la sharia; il Lmc che sviluppa un mercato interbancario islamico; l’Iifm dedicato alla integrazione di un mercato di capitali del mondo islamico. Alla riunioni non mancano banchieri e consulenti finanziari occidentali, esclusi però dalle sessioni a porte chiuse dedicate agli “impegni” per le fondazioni “culturali” (e non solo) di proselitismo e di difesa dei valori della sharia.
Circa dieci anni fa, un documento dell’amministrazione finanziaria degli Stati Uniti sui capitali all’estero della rete terroristica ha documentato che almeno 3 miliardi di dollari appartenuti al Governo di Saddam Hussein erano depositati in banche controllate dal Governo di Damasco, soprattutto in Siria, Libano e Giordania. Di questo totale, 0,5 miliardi di dollari erano depositati in banche libanesi e una somma analoga in banche giordane. Degli altri due miliardi si sa poco o niente. Secondo lo studio, al momento dell’apertura delle ostilità, Saddam e i suoi avevano ben 1,7 miliardi di dollari in banche commerciali degli Stati Uniti, circa 600 presso la Banca dei regolamenti internazionali a Basilea e in istituti di credito giapponesi. Di soldi, 300 milioni – ossia la metà di quanto trovato alla Bri – sono stati restituiti al (nuovo) Governo iracheno; il resto è sotto sequestro. Queste risorse finanziarie sono state accantonate per uno scopo preciso che va ben oltre il supporto alla guerriglia in Iraq; unitamente ad altre riserve e flussi (di cui è difficile stimare l’entità), servono al terrorismo che oggi richiede molto di più delle bombe, celate sotto i cappelli (chiamati a bombetta) dei nichilisti all’inizio del Novecento.
La situazione è, da allora, nettamente cambiata. Per il Daesh, le modalità di finanziamento sono mutate rispetto ai tempi di Al-Qaeda. In primo luogo, il Califfato dispone di riserve petrolifere e di greggio destinato al mercato nero in Occidente e in Estremo Oriente. Quindi è abbastanza autosufficiente per le proprie esigenze “statuali” (chiamiamole così) e di forze armate (dall’addestramento alla guerra). Inoltre, le “cellule” sparse in Europa operano con “terrorismo low cost”. Si stima che la strumentazione terroristica per gli attentanti a Parigi abbia avuto un costo di 20.000 euro e quella per gli attentati a Bruxelles di 15.000 euro; li si finanzia con la questua nelle moschee (un crowfunding terroristico), con lo spaccio di droga e con il “pizzo” in certi quartieri.
“L’economia del terrorismo” (nel senso di sviluppo della teoria economica del terrorismo e applicazioni d’analisi economica alla prevenzione dal terrorismo) ha avuto, per decenni, il suo centro all’Università di Chicago. Grazie a lavori effettuati a pochi chilometri dal Magnificent Mile (la lunga passeggiata sul lago Michigan nella città dell’Illinois) è stato, ad esempio, possibile, negli anni Settanta, simulare, con l’ausilio della “teoria dei giochi” (specialmente dei “giochi a più livelli” ormai nella prassi delle scuole militari) le strategie e le tattiche di dirottamento aereo e ridurne, nell’arco di meno di un lustro, il numero dei dirottamenti da trenta a circa due l’anno. Gli “economisti del terrorismo” di Chicago hanno sviscerato “l’effetto di sostituzione” nelle strategie e nelle tattiche: a fronte dell’argine ai dirottamenti aerei, i terroristi si sono rivolti ad altri comparti, che, però, comportano costi maggiori e per essere attuati, richiedono risorse più ampie e risultati attesi molto più consistenti di quelli dei dirottamenti aerei.
In tempi più recenti, l’Università della California del Sud è diventata il fulcro americano più importante in materia: la figura di spicco è Todd Sandler. I lavori degli ultimi anni coniugano la “teoria dei giochi” con “la teoria economica dell’informazione e della comunicazione” e con paradigmi tratti dall’analisi dei mercati finanziari, quali la teoria delle opzioni e dei derivati. Da un lato, grazie a elaborati modelli esplicativi, questi studi documentano come il “terrorista razionale” cerchi risultati con vasto contenuto mediatico. Da un altro, le ricerche sugli “obiettivi anti-terroristi mirati” mostrano come un “anti-terrorismo a vasto raggio o a pioggia” avrebbe costi elevatissimi a fronte di risultati modesti; sono preferibili – affermano Todd Sandler e colleghi – strategie di prevenzione incentrate sulla decodificazione di segnali indiretti.
In Italia, l’economia dell’informazione della comunicazione ha gradualmente trovato posto, negli ultimi vent’anni, tra le discipline insegnate nelle Facoltà di Economia delle maggiori università. Inoltre, nel 2000-2006 si sono tenuti presso la Scuola superiore della Pubblica amministrazione (Sspa, ora Sna, Scuola nazionale d’amministrazione) corsi e percorsi formativi di Economia dell’informazione e comunicazione che, con contenuti appropriati potrebbero essere organizzati per il ministero dell’Interno, anche in quanto seminari in materia vengono periodicamente tenuti al Nato Defense College a Roma e allo Staff College delle Nazioni Unite a Torino.
In Europa, il centro più importante di ricerche su questi temi è l’Università di Zurigo, dove gli studi economici sul terrorismo sono guidati da quel Bruno Frey che è anche uno dei maggiori teorici dell’economia della felicità e in passato ha contribuito in misura significativa alla teoria economica delle cultura e dei mercati delle arti sceniche. Altre sedi di rilievo sono quelle guidate da Mats Lundhal dell’Università di Stoccolma e da Kurt Konrad della Libera Università di Berlino.
Un campo relativamente nuovo e di grande interesse è quello dell’analisi economica dell’impiego di kamizake reclutati tra giovani cresciuti in ambiente occidentale oppure “occidentalizzato” (i palestinesi nati e diventati adulti in Israele). Murihaf Jouejati dell’Università George Washington nella capitale Usa sottolinea come la scelta del suicidio-eccidio abbia determinanti economico-sociali: i giovani musulmani, cresciuti negli Usa o in Europa oppure nelle aree più occidentalizzate del Medio Oriente, lo compiono non per andare in un Paradiso (in cui spesso non credono affatto), ma per sconfiggere il nemico in una guerra millenaria in cui l’intrusione occidentale avrebbe, agli occhi loro e dei loro maestri, tolto il primato economico, scientifico e culturale dell’Islam. Lo scontro con le libertà – e la democrazia e il mercato – rende più acuta la decisione di commettere gesti estremi come il suicidio-eccidio. Ciò spiega la scelta di terroristi istruiti (oltre che probabilmente laicizzati) per le missioni più importanti.
Attenzione: il suicidio-eccidio è contrario al Corano dove si prescrive che l’uomo non deve uccidere “neanche una formica” e la “guerra santa” è consentita unicamente per la riconquista e difesa dei “luoghi sacri”. Il kamikaze o è imbevuto di eresia, ossia di un’interpretazione distorta del Corano, oppure considera il suicidio-eccidio come strumento di una guerra laica tra civiltà necessariamente in forte contrapposizione.
Quali alcune delle principali lezioni che si traggono dall’”economia dell’antiterrorismo”, ad esempio dai tre volumi i 1700 pagine curati da Todd Sandler e Keith Hartley, dai lavori di Bruno Frey dell’Università di Zurigo e da quelli di Mats Lundhal dell’Università di Stoccolma e di Kurt Konrad della Libera Università di Berlino?
In primo luogo, il contenimento del terrorismo è un “bene pubblico internazionale”, che non può essere fornito da un solo Paese e di cui beneficia tutta la comunità mondiale; dopo le risoluzioni Onu, anche Siria e Libano hanno dato la loro disponibilità a operare di concerto con il resto del mondo per bloccare i soldi del terrore. In secondo luogo, ciò implica vigilare su conti sospetti di “cellule” terroristiche dovunque esse siano; questa attività ha ramificazione per quanto riguarda la vigilanza bancaria; negli Stati Uniti, sono state potenziate, negli ultimi due anni e mezzo, le funzioni e le risorse a disposizione del Tesoro – tramite l’Irsa (l’agenzia delle entrate Usa) e il Comptroller of Currency (una Direzione generale del ministero del Tesoro). Anche in Italia si è creata una Direzione generale presso il ministero dell’Economia e delle Finanze nell’ambito del Dipartimento del Tesoro. Dobbiamo chiederci se le nostre attività di vigilanza finanziaria siano attrezzate alla bisogna.
In terzo luogo, occorre ridurre la capacità d’attrazione abbassando l’attenzione dei media e aumentando, al tempo stesso, il costo-opportunità ai terroristi, nonché “offrendo alternative” a potenziali reclute del terrorismo. Secondo Bruno Frey, il decentramento politico e amministrativo può ridurre in misura significativa i benefici ai terroristi in quanto implica un più forte controllo sociale. Più complicato “offrire alternative” a potenziali terroristi: ciò vuol dire “strategie negoziali” o, in termini di gergo economico, “cooperative”. Percorso che pochi Governi sono pronti a seguire.