Dopo il tragico messaggio giunto dall’Egitto, con la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni ancora avvolto da non pochi tratti di mistero, l’altro giorno è arrivato quello dalla Libia: statene fuori (salvo la bella notizia di ieri della liberazione degli altri due rapiti, accompagnata però dal solito cotè di polemiche per la strana tempistica e il riscatto pagato a metà). E non è certo un caso che i due tecnici dell’azienda di costruzioni Bonatti uccisi durante un blitz delle forze speciali libiche contro l’Isis (questa la versione ufficiale), che li avrebbe tenuti in ostaggio, siano morti proprio ora, dopo otto mesi di prigionia: pochi giorni fa, infatti, la voce del padrone aveva tuonato gentile ma ferma il suo ordine. Ovvero, il titolare del Pentagono, Ashton Carter, aveva detto che la prossima missione militare in Libia, la cui illegittimità tramuta l’intervento contro la Serbia del 1999 in un cauto approccio bellico, avrà guida italiana. Oltretutto, con due dinamiche molto pericolose. 



Primo, Washington vuole indirizzare il nostro intervento verso un rapporto privilegiato in Tripolitania e quindi con il governo di Tripoli, non nostro interlocutore nell’ultimo periodo e il più smaccatamente islamista. Secondo, l’Italia sarebbe sì formalmente a capo della missione, ma insieme a inglesi, francesi, statunitensi: ovvero, a popoli ed eserciti visti come nemici, un qualcosa che non solo vanificherebbe gli sforzi diplomatici di molti politici italiani per stabilizzare i rapporti con la Libia, ma che ci esporrebbe a possibili rischi e rappresaglie dirette. La risposta preventiva a questa incoronazione non ha tardato a farsi sentire: col sangue. 



Ora, di fronte alla morte bisogna avere solo pietà e rispetto, quindi frasi tipo quella pronunciate da Matteo Salvini («Renzi ha le mani sporche di sangue») mi fanno abbastanza ribrezzo, ma resta un dato, inoppugnabile: siamo in guerra. Chi l’ha dichiarata? Non si sa. Contro chi? Non si sa, pare l’Isis, ma l’Isis è in gran parte frutto dell’Occidente, quindi siamo in guerra contro la nostra idiozia? Il Parlamento si è pronunciato? No, palazzo Chigi ha avocato a sé tutte le prerogative, compresa la gestione delle missioni dei servizi segreti. E lo stipendificio chiamato Onu ha detto qualcosa? No. Anzi, in qualche modo sì. 



Nel silenzio della stampa italiana rotto solo dal blog di Marcello Foa, infatti, martedì il ministro degli Esteri russo, Seghei Lavrov, è intervenuto al Consiglio dei diritti umani dell’Onu, in corso a Ginevra: parliamo dello stesso comitato presieduto dall’Arabia Saudita, penso di aver detto tutto. A riportare con dovizia di particolari quanto pronunciato dal ministro, ci ha pensato un quotidiano autorevole come Le Temps, il quale ha sintetizzato il tutto in questo titolo: Quando Lavrov dà lezioni alle democrazie. Maledetti bolscevichi d’Oltrape! Cosa ha detto Lavrov? In primis ha denunciato il fatto che le cosiddette “primavere arabe”, anziché portare libertà e giustizia, hanno provocato catastrofi umanitarie e ha denunciato altresì la strumentalizzazione dei diritti umani per raggiungere fini geostrategici, ovvero ottenere cambiamenti di regimi schermandosi dietro una causa nobile. 

Si è scagliato contro «una nuova lettura della Convenzione dei diritti umani per imporre valori che non sono universali e a detrimento del principio dell’uguaglianza sovrana degli Stati», ha rivendicato la difesa dei diritti economici, sociali e culturali dei popoli che devono essere considerati alla stregua di quelli civili e si è allarmato per la rinascita dei movimenti neonazisti in Ucraina e nei Paesi baltici, che beneficiano dell’indulgenza e del silenzio di Stati Uniti ed Europa. Infine, tanto per gradire, ha accusato la Turchia di armare i terroristi dell’Isis e ha sottolineato l’ipocrisia degli europei che da un lato incoraggiano l’afflusso di rifugiati e dall’altro li maltrattano con politiche incoerenti. 

Ecco come Marcello Foa chiude il suo commento: «Gli straordinari successi delle intromissioni americane in Afghanistan, in Iraq, in Libia, in Siria non ci hanno insegnato nulla. Ed è emblematico che a ricordarcelo sia proprio la Russia, che non sarà un campione di democrazia, ma che in politica internazionale ha ragioni da vendere». Sottoscrivo, in toto. E ora vi spiego perché. 

Sapete in nome di cosa stiamo per entrare in guerra e sono morti i due tecnici italiani? Destabilizzazione. E mi riferisco proprio alle parole di Lavrov riguardo le “primavere arabe” e i loro scopi reali. In un articolo dell’Associated France Press dell’aprile 2011, l’assistente al Segretario di Stato Usa, Michael Posner, ammise che nel mese di febbraio gli Stati Uniti addestrarono 5mila attivisti egiziani, tunisini, siriani e libanesi. Ovviamente, Posner disse che per preservare quelle persone dall’arresto da parte di governi autoritari l’operazione era stata coperta come piano per lo sviluppo delle nuove tecnologie, che il governo finanziò con 50 milioni di dollari regolarmente registrati nel budget. Di più, lo stesso New York Times pubblicò un articolo nel quale si diceva chiaramente che le organizzazioni chiamate a dar vita alle primavere arabe erano state finanziate dal National Endowment for Democracy, a sua volta finanziato dal Congresso con 100 milioni di dollari e dalla Freedom House, che beneficiò di “donazioni” da parte del Dipartimento di Stato. 

Per capire bisogna partire da un acronimo, ovvero Pomed, sigla che sta per Project on Middle East Democracy, un’istituzione diretta da uomini del Council on Foreign Relations e del Brookings Institute, consorterie molto influenti nelle decisioni del governo e con addentellati in tutti i quadri intermedi del potere politico e di intelligence. Il Pomed non solo ammise, ma si fece vanto del fatto di aver aiutato chi protestava a sviluppare capacità e attitudine a fare network. Questo addestramento avveniva ogni anno sotto la supervisione e con l’organizzazione di Movements.org, questo a partire dal 2008 quando i membri del movimento egiziano “6 aprile” e altri gruppi impararono tecniche di sovversione dei loro governi. 

E chi sponsorizzava e finanziava Movements.org? Un conglomerato di agenzie governative e corporations Usa che vantava nel novero dei suoi democratici benefattori, tra gli altri, nomi come il Dipartimento di Stato, Google, Mtv, l’agenzia di relazioni pubbliche Edelman, Facebook, Cbs News, Msnbc e molti ancora. E quando una notizia, come all’epoca le “primavere arabe” e oggi la minaccia dell’Isis in Libia (ieri è stata la strage al Bataclan), diventa l’unico argomento h24 su tutte le reti, forse è il momento di chiedersi se dietro non ci sia un’agenda differente. 

Volete delle cifre al riguardo? Eccone qualcuna, offertaci dall’ultimo report della University of Maryland su dati del Global Terrorism Database (Gtd): non dei putiniani ortodossi, insomma. Tra il 1970 e il 2014 ci sono state 176 distinte occasioni in cui attacchi terroristici hanno causato 100 o più morti in un certo Paese e in un certo giorno. Il primo caso fu l’incendio doloso al Cinema Rex di Abadan, in Iran, in cui persero la vita 400 persone. Lo scorso anno abbiamo registrato un picco di questi eventi, un’escalation del terrore in grande stile destinata a infondere terrore nella gente: perché nel 2014, a fronte di questi dati, nessuno ha detto «Siamo in guerra» come ha fatto François Hollande dopo la strage del Bataclan? Perché non ci riguardavano, erano stragi in Iraq, Nigeria, Pakistan, Siria, Afghanistan. Toccata la Francia, scatta la guerra. 

Francia che guida una particolare classifica, ovvero tra il 2000 e il 2014 è il Paese al mondo che ha subito più attacchi coordinati in assoluto: su un totale di 331, il 40% apparteneva a questa categoria prettamente terroristica. Morti? Zero. E sapete perché? Perché l’87% di questi sono stati perpetrati da separatisti corsi del Flnc, i quali solitamente distruggono infrastrutture. Una cosa rimane, però: ma l’intelligence francese, ci è o ci fa, visti questi numeri? E poi, i corsi sono forse islamici? Tanto per darvi qualche altra cifra, senza contare Parigi, nei primi mesi di quest’anno ci sono stati 11 attacchi con più di 100 morti e l’Isis a livello globale, tra il 2000 e il 2014, è il responsabile maggiore con il 12% del totale. 

E vediamo ora gli straordinari risultati ottenuti in quindici anni di lotta globale al terrorismo, come ci mostra il primo grafico: più terrorismo che mai! Esattamente come la lotta contro la droga, la quale ha avuto come unico effetto il rafforzamento e l’imbarbarimento dei cartelli del narcotraffico. Tra il 2013 e il 2014 il numero di morti a livello mondiale dovuti ad attacchi terroristici è salito dell’80%, arrivando a un record assoluto. Il secondo grafico ci offre il numero di morti in attacchi terroristici divisi per Paese riferiti al 2014. Non c’è una singola nazione europea in questa lista e la gran parte di morti si è registrata in Iraq, Nigeria, Afghanistan, Pakistan e Siria. Di più, l’Isis lo scorso hanno non è stato il leader delle morti per terrorismo, bensì Boko Haram. Nessuno, a oggi, mi pare abbia dichiarato loro guerra, guardando contrito la telecamera: si attacca la Libia, si mandano boots on the ground in Iraq, si gioca a risiko con i “ribelli moderati” in Siria. Nigeria, non pervenuta. 

 

(1- continua)