«L’attuale formulazione della clausola di non adesione al Gruppo Bancario Cooperativo da parte di una Bcc necessita di essere rivista al fine di garantire la libertà di opzione nell’adesione al Gruppo, ma nel rispetto dei princìpi fondanti la mutualità e la cooperazione, evitando rischi di eccezioni sul piano della costituzionalità e della coerenza con le normative europee. Federcasse chiede: a) che venga salvaguardato il principio di indivisibilità delle riserve (costituenti un patrimonio intergenerazionale, non appannaggio dell’attuale generazioni di soci) nell’ambito dell’unicum rappresentato da una cooperativa a mutualità prevalente che esercita l’attività bancaria; b) che vengano apportate le opportune modifiche in modo tale da garantire la coerenza delle “clausole di non adesione” che verranno previste nel provvedimento definitivo con quanto disposto dall’articolo 17 della legge 388/2000, che reca una norma di interpretazione autentica sull’inderogabilità delle clausole mutualistiche da parte delle società cooperative e loro consorzi; c) che comunque, nel denegato caso non si volesse rinunciare a soluzioni derogatorie a quanto sopra, queste ultime dovrebbero essere eccezionali e dovrebbero fare riferimento a una data precisamente individuata e legata al momento di definitiva conversione in legge del presente Decreto (in modo particolare se la deroga venisse condizionata all’esistenza di un dato quantitativo dimensionale)». (Alessandro Azzi, presidente Federcasse, in audizione in Commissione Finanze della Camera, il 29 febbraio scorso sul decreto di riforma del Credito cooperativo).



«Viene condivisa l’esigenza di lasciare una libertà di scelta a chi non vuole aderire al gruppo», racconta Sanga, confermando che non ci si può aspettareuna marcia indietro rispetto alla way-out approvata dal Consiglio dei ministri del 10 febbraio, anche se il testo si può migliorare. (Il Sole 24 Ore di ieri, citando Giovanni Sanga, deputato Pd relatore al decreto Bcc).



Un’ipotesi migliorativa e risolutiva al nodo way out può essere «il conferimento dell’azienda bancaria in una spa, ferma restando l’indivisibilità delle riserve e la conferma delle clausole mutualistiche nella coop conferente, oltre alla ridetermina-zionedell’oggetto sociale della coop, nonché la previsione di norme che almeno in una fase iniziale mantengano la spa nell’ambito del controllo delle imprese cooperative al fine di evitare manovre speculative». Così il presidente della Confcooperative, Maurizio Gardini, che in un’intervista ha concretamente prospettato che a una Bcc che a una certa data – ad esempio il 31 dicembre 2015, come suggerito da Bankitalia – abbia più di 200 milioni di patrimonio e lo riscatti pagando l’imposta del 20%, ma ad alcune precise condizioni. La prima e principale è l’obbligo di conferire l’attività bancaria in una Spa che resti sotto il controllo dalla coop conferente, la quale mantenga in capo a sé le riserve indivisibili.



Il linguaggio è tecnico-burocratico, da “normificio” parlamentare, ma la riforma delle Bcc è oggi al crocevia dell’agenda politico-economica nazionale. È al centro di un confronto serratissimo che ha almeno tre profili di primo livello: 1) il premier Renzi l’ha presentata come principale risposta attiva del sistema-Italia alla “questione bancaria” riesplosa dopo i quattro dissesti di novembre e il successivo scontro istituzionale con la Ue; b) la riforma – nello snodo controverso sulla possibilità di una Bcc di non aderire al gruppo unico o addiritturaa di “fuggire” dal comparto – ha riproposto la preferenza di fondo del centrosinistra renziano per l’indebolimento dei “corpi intermedi” del Paese come certamente sono il Credito cooperativo e in generale la cooperazione italiana di ogni colore; c) nel merito, la way-out inserita all’ultimo nel decreto – e apertamente contestata da Federcasse – appare inequivocabilmente cucita sulle esigenze di un manipolo di Bcc toscane, vicinissime al premier: quella di Cambiano (dov’è dirigente il padre del sottosegretario alla Presidenza, Luca Lotti); e quella del Chianti, protetta da Lorenzo Bini Smaghi (ora fra l’altro candidato renziano a governatore della Banca d’Italia) e salvatrice del Credito cooperativo fiorentino, fallito sotto l’ala di Denis Verdini.

Qualunque sarà il compromesso sulla way-out della riforma Bcc – perché compromesso sicuramente sarà – sarà un misuratore attendibile della temperatura politico-economica assoluta del Paese. Azzi ha già preannunciato per il mese di maggio (ormai meno di 80 giorni) la presentazione del piano “Gruppo Bancario Cooperativo”: il “Credit agricole italiano” che lo stesso Renzi ha fatto oggetto di “effetti-annuncio”. I principali player del Credito cooperativo nazionale (Federcasse, Iccrea Holding, Cassa Centrale di Trento, Bcc di Roma, ecc.) hanno già ufficializzato scelte virtualmente irreversibili: il “Credito cooperativo 3.0” – dal loro punto di vista – si farà. Anzi: si sta già facendo, lungo le linee raccomandate il governo un anno fa, sollecitando l’autoriforma e soprattutto il Gruppo unico, il superamento del gioco dei “piccoli banchieri”. Se ora il Governo ci ha ripensato per garantire piccoli salvacondotti a banche che distano pochi chilometri dalla sede dell’ex Banca Etruria, giudichi il Parlamento. Certamente, poi, giudicherà la Commissione Ue, che a metà 2015 ha dettato a Roma la riforma della Bcc. E poi – per statuto condiviso dal governo italiano – giudicherà il Single Supervising Mechanism della Bce, il cui presidente è Mario Draghi.

(Prossimo round: domani in Senato, Commissione Finanze e Tesoro, indagine conoscitiva sul sistema bancario italiano. Convocati: Azzi, il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli e quello di AssoPopolari, Corrado Sforza Fogliani)