Nel 2015 la società italiana Eni ha scoperto a 190 chilometri dalle coste settentrionali dell’Egitto il giacimento di gas Zohr. Esso contiene 850 miliardi di metri cubi di gas ed è il più grande giacimento mai scoperto nel Mar Mediterraneo; si ritiene che la scoperta sia talmente rilevante da avere impatti sul mercato globale del gas naturale. Le statistiche non dicono però neanche la metà della metà delle cose che bisognerebbe dire. L’Egitto soffre da anni per la mancanza di gas che si è tradotta in ricorrenti black-out elettrici che si sono tradotti a loro volta in un enorme svantaggio competitivo per l’economia e per l’industria egiziana, mentre diversi impianti industriali sono stati riconvertiti a carbone. Il fatto che la popolazione egiziana aumenti, e con essa il consumo di elettricità, ovviamente non aiuta soprattutto in prospettiva. Il giacimento di Zohr risolverebbe i problemi energetici dell’Egitto consentendogli perfino di tornare a essere, dal 2020, esportatore netto di gas; praticamente il biglietto della lotteria di capodanno per l’economia egiziana e la competitività del Paese. Dal punto di vista strategico questo benedettissimo giacimento che ha scoperto l’Eni consentirà all’Egitto di evitare antipatiche trattative con Israele sulla costruzione di un gasdotto dal giacimento “Leviathan” e di intavolare trattative per esportare, via gasdotto, il gas verso la Turchia per alimentare il mercato europeo. 



L’Eni, nonostante uno dei bilanci più solidi tra le major, è impegnata in una campagna di dismissioni di asset non strategici e ha promesso di pagare un dividendo molto alto per placare la fame di soldi dello Stato italiano; in questa fase di prezzi bassi è una mossa che strategicamente non ha molto senso, forse converrebbe comprare, e che è in se stessa un autoridimensionamento, ma comprendiamo, nonostante sia un vero peccato, che l’Italia abbia bisogno di soldi e che il suo peso geopolitico sia quello che sia. In ogni caso Zohr è una scoperta, comprensibilmente, veramente eccezionale che consente tra l’altro di alimentare l’esiguo portafoglio di una gloriosissima società ingegneristica italiana, che il mondo ci invidia, Saipem, devastata prima da una serie di indagini che in Europa e in America sono probabilmente apparse molto singolari e poi dal dimezzamento del prezzo del petrolio. 



L’Italia guadagna un partner commerciale e strategico dall’altra parte del Mediterraneo in una fase complicatissima che vede centinaia di migliaia di profughi partire dalle coste; l’Egitto è sicuramente una potenza economica “regionale” con 90 milioni di abitanti in crescita di quasi il 2% all’anno. In questa situazione si può immaginare che l’Egitto abbia di per sé un qualche incentivo a rovinare le relazioni con l’Italia? 

Un po’ più a sinistra dell’Egitto c’era la Libia che oggi non c’è più dopo le bombe inglesi e francesi aiutate da quelle americane che hanno fatto piombare il Paese nel caos. In un memo (reso pubblico da wikileaks) inviato al Segretario di stato americano Hillary Clinton, Sydney Blumenthal evidenziava che l’allora primo ministro francese Sarkozy aveva chiesto in un incontro con il nuovo “governo” libico di riservare il 35% dell’industria petrolifera libica a Total come ricompensa per il supporto francese alla “ribellione”; allo stesso incontro partecipava David Cameron con simili propositi. Il presidente libico del consiglio di transizione si diceva favorevole a privilegiare aziende francesi, inglesi e americane e osteggiava invece l’Eni. 



I principali contratti di costruzione civile in Libia sono/erano in mano ad aziende italiane. La Francia, per esempio, che ha fatto questo favore enorme alla Comunità internazionale liberando la Libia, ora in parte in mano all’Isis, e da cui ora parte una mezza “invasione di profughi” verso le coste italiane è la stessa che consegna la legione d’onore ai principi sauditi per i meriti contro la guerra al terrorismo e che vende armi a man bassa a stati arabi a cui forse non sarebbe il caso di vendere neanche le fionde. È la stessa Francia che di fatto chiude le frontiere con la Liguria rispedendo indietro i migranti. 

Torniamo all’Egitto. L’inglese Bp sta sviluppando un campo di gas, nel delta del Nilo, che conta un sesto di quello scoperto da Eni e che richiede investimenti per dodici miliardi di dollari. Bp ha più dell’80% del campo e non pare particolarmente sconvolta e neanche turbata per le condizioni politiche egiziane o per le sorti dei cittadini europei. Un conto è sospendere dei voli, un conto è rinunciare a contribuire, dietro compenso si intende, allo sviluppo economico e strategico egiziano con tutti i dividendi economici e di relazione che questo comporta. Non ci risulta che qualcuno in Inghilterra abbia seriamente proposto che Bp interrompa le relazioni con l’Egitto. 

Ora, l’Italia che, con Eni, unica riusciva a stare in Libia prima dell’intervento “umanitario” anglo-francese fa una mega scoperta in Egitto che risolve a tutti tantissimi problemi e che la rende protagonista nel Mediterraneo, ma purtroppo le “va male” un’altra volta a causa della terribile sorte capitata al povero Regeni. Subito si invoca di tenere la schiena dritta perché non ci sono solo i soldi e il gas, anche se poi a casa siamo in 60 milioni a pretendere di accendere la lavastoviglie o la lavatrice o il forno tutte le sere, avere la casa riscaldata d’inverno e possibilmente raffreddata d’estate a costi decenti. Ma non è questo il punto. Il fatto è che le coincidenze in un giallo che sembra uscito dalla peggiore puntata di “Chi l’ha visto?” sono davvero troppe per risolvere il tutto dando la colpa al maggiordomo che tra l’altro non si capisce cosa abbia da guadagnare. Pare che le buone inchieste giornalistiche debbano “seguire i soldi” (follow the money), ma in questo caso seguire i soldi fa fare tante domande scomode. 

A proposito, la derelitta Italia deve ancora avere qualche santo in Paradiso. Prima tra tutti i Paesi occidentali è andata in Iran a presentarsi con le proprie aziende per offrire il proprio sistema alla ricostruzione che verrà fatta a colpi di decine di miliardi. L’Italia, e il suo sistema, in un modo o nell’altro dall’Iran non sono mai andate via e oggi vantano un credito infinito. La Francia, per esempio, che ha fornito armi e molto altro, ai nemici dell’Iran e ha fatto di tutto per evitare la fine delle sanzioni, probabilmente oggi non è esattamente in prima fila. Insomma, l’Italia ha ancora oggi un apparato industriale in grado di renderla un partner commerciale appetibile per chi cerca lo sviluppo; ha un sistema finanziario ricco di risparmio che può incanalare investimenti per la ricostruzione e lo sviluppo; ha sempre avuto un approccio collaborativo che le ha consentito di sviluppare relazioni che altri non potrebbero neanche accennare; il limitato peso politico la rendono un partner molto meno indigesto. Dove non si arriva con la bravura e ci si fa battere inspiegabilmente dalla provinciale si arriva però con le bombe e poi con il “soft power”. 

Dopo il caso Libia, i “leaks”, le mail e le conversazioni finite sui giornali vari non siamo neanche preoccupati di essere accusati di dietrologia perché ormai è storia; e se c’è qualcuno che ancora dice di credere alle panzane propinate sull’intervento umanitario è già da un pezzo malafede sicura. La domanda scomoda è questa: siamo proprio sicuri che non ci sia qualcuno che abbia molto da guadagnare se l’Italia rompe con l’Egitto? È una domanda interessante perché sappiamo già chi e perché voleva che l’Italia rompesse le relazioni con la Libia.

P.S.: A due settimane dal referendum sulle trivelle Eni finisce in mezzo alle indagini. Non sia mai che l’Italia si autoproduca il suo petrolio e che ci alimenti le sue raffinerie con cui si pagano stipendi italiani. In ogni caso si indaga su Total e Tempa rossa e si chiudono gli impianti dell’Eni. Alimenteremo gli stabilimenti balneari con il carbone oppure venderemo caldissime coca cole a chilometri zero perché i frigo, si sa, consumano. Scordiamoci gelati e ghiaccioli e i turisti arriveranno solo in bicicletta.