Due luoghi comuni dell’economia. Il primo: l’attività manifatturiera giapponese ha visto a marzo una contrazione, al ritmo più rapido di oltre tre anni, con i nuovi ordini per le esportazioni scesi sensibilmente, alimentando i timori che la terza economia mondiale possa scivolare di nuovo in recessione. Il secondo: nessun limite alla politica monetaria espansiva della Bank of Japan. Lo ha detto il governatore della BoJ, Haruhiko Kuroda, nel corso di un intervento al Parlamento. Già, il tentativo di operare il controllo sui prezzi, spingendo al limite le tecniche di reflazione, non sembra funzionare.
Beh, allora che si fa? Olivier Blanchard, ex responsabile economista del Fondo monetario internazionale, e Adam Posen, direttore generale del Peterson Institute for International Economics, si mettono di buzzo buono a dire la loro ponendo al Giappone un monito e suggerendo alcune iniziative: “È arrivato il momento per il Giappone di fare sul serio riguardo all’aumento dei salari. Un piano di una maggiore spinta a far salire i salari dovrebbe essere adottata dal governo giapponese”.
Tra le misure proposte: ritardare il taglio delle tasse “corporate” che è stato promesso, fino a quando le aziende non alzeranno i salari; aumentare i compensi nel settore pubblico, in questo modo anche le aziende private sarebbero costrette a fare lo stesso, per non perdere i propri dipendenti; aumentare il salario minimo e i salari stabiliti nei contratti governativi e nei settori regolamentati di almeno il 5%.; infine, indicizzare i salari all’inflazione in quei settori in cui il governo ha la giurisdizione.
Inflazione a tutti i costi, dunque! I due economisti vanno avanti e suggeriscono perfino l’introduzione di sanzioni fiscali per le società che non “si attengano” alle disposizioni, e dunque non assicurino “un aumento dei salari di almeno il 2% più la crescita della produttività”. Secondo la coppia Blanchard-Posen, se si riuscisse a fare in modo che i salari crescano a un ritmo più veloce rispetto ai prezzi, le spese al consumo dovrebbero finalmente salire. Allo stesso tempo, tuttavia, le aziende potrebbero non essere d’accordo, in quanto, al fine di tutelare i margini sui profitti, sarebbero ovviamente tentate di aumentare i prezzi.
In ogni caso, i due economisti fanno notare che i redditi e i prezzi più alti farebbero salire il valore del Pil su base nominale. L’effetto sarebbe il calo del rapporto debito/Pil, che al momento si aggira a quasi il 250%. Insomma, con giochi di prestigio, a fronte di una sovraccapacità produttiva sia dell’impresa che del lavoro, che la deflazione misura, si ordiscono falsi salari e falsi prezzi per accroccare un Pil fasullo, buono per ridurre in modo altrettanto fasullo il debito pubblico.
Cavolo. Per questi ortodossi dell’economia, pur di non cambiare i paradigmi che agitano il loro pensiero, costringerebbero i principi del libero mercato a farsi friggere, proprio quando questa congiuntura lascia intravvedere soluzioni eterodosse per andare oltre la crisi. Et voilà: per guadagnare occorre spendere! Più eterodosso di così non si può: se si vogliono far crescere i salari, così come i profitti aziendali, occorre vendere quel sovrappiù che ingolfa i magazzini, per farlo occorre che i consumatori dispongano di un potere d’acquisto idoneo a smaltire quelle sovraccapacità che frenano la nuova produzione e riducono i salari.
Già, occorre remunerare cotanto impeto all’acquisto, che impiega tempo, attenzione e competenza per potersi esercitare e che fa tanto bene ha chi ricava ricavi []. Altro che controllo sui prezzi. Sì, perché solo la spesa genera reddito senza infingimenti. Il lavoro poi lo distribuisce, quando si lavora per nuovamente produrre, avendo smaltito e incassato il profitto.
[1] Steen Jakobsen, capo economista di Saxo Bank, dice: “Viviamo una crisi finanziaria che dura da otto anni e i lavoratori portano a casa remunerazioni ai minimi storici, mentre le aziende conseguono i guadagni (al lordo delle imposte) più elevati di sempre. Senza contare che si assiste al più basso livello di investimenti mai registrato nella storia e al più basso livello di produttività.