Cosa unisce l’accorata difesa di David Cameron davanti alla Camera dei Comuni riunita e il rally delle banche europee di ieri in Borsa? Formalmente nulla, ma potrebbe stupirvi, in realtà, quale potrebbe essere il minimo comun denominatore nascosto tra le due vicende. La prima è nota: il premier britannico è finito nei guai per le cosiddette Panama papers, ovvero il diluvio di dati bancari provenienti da paradisi off-shore che sta rivelando al mondo la scoperta dell’acqua calda. Ovvero, che chi ha molti soldi, spesso li porta all’estero. Ne aveva già scritto al riguardo un tale Luigi Einaudi, non proprio l’altra settimana e non proprio in toni accusatori. Ma tant’è. Detto questo, più interessante appare la seconda questione: ovvero, sull’attesa di una soluzione tra governo italiano, Cassa depositi e prestiti e banche per trovare una via d’uscita che stabilizzi il nostro sistema creditizio, l’intero comparto a livello continentale ieri ha voluto essere ottimista e credere alla svolta nel Paese delle sofferenze e degli incagli. Ma non solo l’Europa, all’ora di pranzo i futures del Dow Jones salivano di 160 punti. 



C’è da crederci? Guardate i due grafici a fondo pagina. Il primo ci mostra come l’ultima volta che il problema bancario italiano sembrava sul punto di essere risolto, poco più di un mese fa, quando sembrava che sarebbe stata direttamente la Bce a comprarsi i cosiddetti non-performing loans, le cose poi non andarono a finire molto bene. Il secondo è ancora più crudo, perché ci mostra come prosegua la poco edificante traiettoria della mutter di tutte le banche europee, ovvero Deutsche Bank, nonostante quel primo rimbalzo. E fino a oggi le grandi banche Ue devono dire grazie al golpe con cui a inizio febbraio la Commissione europea ha reso noto che l’entrata in vigore del Mifid II potrebbe slittare di un anno, il 3 gennaio del 2018 e non più del 2017. 



Cos’è la normativa Mifid? Una regolamentazione scritta sull’onda della crisi finanziaria, con l’obiettivo di ridurre la poco accorta assunzione di rischi e creare un mercato europeo più integrato e competitivo: in parole povere, stroncare le velleità di azzardo morale di quelle banche commerciali che in realtà sono banche d’investimento, basando il loro core business sul trading e non sull’erogazione di credito e la gestione del risparmio. La versione II, quella di cui parliamo, è stata invece messa a punto per superare i problemi della precedente versione, in particolare intervenendo per adeguare l’operatività agli sviluppi tecnologici nel trading e per aumentare la trasparenza nei mercati dei bond e delle materie prime. 



E cos’è successo adesso? Occorre dare più tempo alle autorità di regolamentazione e agli operatori di mercato per far fronte ai cambiamenti richiesti. Una manovra che sembra fatta ad hoc per permettere a Deutsche Bank (oltre ad altre big europee) di sistemare le cose all’interno delle sue dark pools, le piattaforme di trading non regolamentato, ovvero Autobahn e SigmaX. L’anno scorso il trading nelle cosiddette dark pools o piattaforme over-the-counter è cresciuto molto più di quello nelle Borse tradizionali, sintomo che le famose intemerate regolatorie dell’Ue sul trading oscuro sono rimaste solo parole: inazione totale e nel frattempo l’Europa segue sempre più velocemente le peggiori abitudini di Wall Street. 

Le dark pools europee (dove non viene mostrato il prezzo prima che il trade abbia avvio), infatti, hanno visto il trading crescere di valore del 45% nel 2015, stando al broker Investment Technology Group, mentre quelle tradizionali solo del 28%. E il trend vede le dark pools crescere molto più velocemente dello loro controparti “in chiaro” anche se l’Unione europea da anni lancia appunto minacce riguardo a piani per imporre restrizioni. Ci sono poi i cosiddetti broker-crossing networks, ovvero piattaforme che fanno incontrare i trade tra clienti di varie banche. Il cosiddetto dark trading sulle piattaforme europee definite multilateral-trading facilities o Mtf è cresciuto al 6,6% del mercato azionario europeo nel suo insieme nel 2015 dal 5,7% del 2014, stando a dati del Fidessa Group Plc. In base al Mifid II, ogni dark pool sarà in grado di gestire solo il 4% del trading totale su un singolo titolo, mentre il trading “oscuro” sarà ristretto all’8% del volume per ogni azione. Stando alle intenzioni, chi dovesse violare queste regole vedrebbe sospesa la propria attività di trading. Peccato che siano solo parole e che il tempo passi: cinque anni fa, le dark pools pesavano solo per il 2,7% del trading europeo, mentre lo scorso dicembre erano al 7,5%. Insomma, se Deutsche Bank ma anche Credit Suisse e altre big europee non sono ancora crollate è solo grazie al regalino europeo. 

Direte voi: cosa c’entra tutto questo con le Panama papers e Cameron? Ci arriviamo ora. Primo, quei conti che appaiono sui giornali sono non solo roba vecchia, ma roba inutile, se non a livello politico: chi pensiate che faccia il vero riciclaggio di denaro, attraverso spesso e volentieri swap su tassi di interesse, se non le grandi banche, terminale ultimo della triangolazione dai paradisi fiscali? Andate a vedere quante multe hanno pagato, senza battere ciglio, i mega-istituti di credito europei negli ultimi anni per questa accusa e capirete che Panama è solo una canzone di Ivano Fossati. Il problema è che con il sistema bancario europeo che balla come un ubriaco non si può dirle certe cose, meglio che i giornali riempiano le pagine con scoop sensazionali come i presunti conti off-shore della D’Urso e di Verdone. 

Inoltre, è interessante la genealogia di questo presunto scandalo. Nei primi mesi del 2015, l’anonima spia John Doe inviava una e-mail al quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung, offrendo 11,5 milioni di documenti sottratti da uno studio legale di Panama specializzato in società di comodo. Il giornale tedesco li accettava e il Consorzio internazionale di giornalisti investigativi (Icij), circa 400 giornalisti provenienti da 80 paesi, ha speso un anno a spulciare i documenti. Poi, con un lancio coordinato, hanno presentato i primi risultati: con un linguaggio identico ripreso da tutti i media, hanno fatto nuove rivelazioni riguardanti corruzione, riciclaggio di denaro e segretezza finanziaria di oltre 140 leader mondiali. Vittime reali? Una, Cameron, a parte il premier islandese che è stato così poco furbo (visto che il suo Paese è stato schiantato da banche che operavano proprio sull’off-shore) da non meritare nemmeno la menzione. 

Non vi sarà però sfuggita una cosa: ricordate il primo giorno, lo scoppio dello scandalo? Quale fu il nome che tutti i tg spararono come fosse il nuovo crollo del Muro? Il presidente russo, Vladimir Putin. E cos’è emerso in realtà, leggendo anche le carte, oltre ai titoli roboanti? Nessuna evidenza di diretta del coinvolgimento di Putin in nessuna delle carte sottratte, né per le attività criminali, il furto, l’evasione fiscale o il riciclaggio di denaro legati a quelle carte. Certo, ci sono documenti che dimostrano che alcuni dei suoi amici hanno movimentato fino a 2 miliardi di dollari attraverso queste società di comodo panamensi, ma nient’altro, da Panama non arriva nulla di nuovo sullo zar. Il quale, infatti, si limita ad accusare la Cia – come ai bei tempi del Kgb – tanto per dare un titolo all’agenzia Tass e se ne va, ridendosela di gusto sotto i baffi. 

Ho fatto una ricerca su Internet al riguardo, ovvero al presunto tesoro estero del leader russo, accumulato in anni al potere: in un primo momento lo si stimava in 20 miliardi di dollari, poi 40 miliardi poi 70, fino a 100 miliardi. E ora, cosa regalano al mondo le sconvolgenti Panama papers? Tutto ciò che si è trovato è forse un paio di miliardi, oltretutto appartenenti a un amico. Forse, qualcuno troppo affamato ha mangiato per sbaglio una polpetta avvelenata annaffiata di vodka? Di fatto, queste sconvolgenti rivelazioni di cui traboccano i nostri pavloviani talk-show politici e tg, forniscono a Putin paradossalmente quasi una copertura. 

Pensateci: se ci fosse stata una manina russa dietro quei files, avrebbe ottenuto parecchi risultati, spendendo ben poco. Alcuni pensano al Russian Financial Monitoring Service (Rfm), il servizio di spionaggio finanziario personale di Putin, che ha il monopolio sulle informazioni riguardanti il ??riciclaggio di denaro, centri offshore e le questioni connesse che coinvolgono la Russia o cittadini russi. Nessun altro sarebbe stato in grado a Mosca di compiere un’operazione del genere, nemmeno l’erede del Kgb, l’Fsb. Inoltre, è curioso che i documenti non menzionino cittadini americani. Perché? Forse qualcuno ha eliminato quei riferimenti prima che i documenti fossero consegnati al giornale tedesco. Un messaggio diretto contro gli americani e gli altri leader politici occidentali che finora non sono stati citati? Magari quelli che non sono menzionati nei Panama papers sono i veri obiettivi. Lo è stato, finora, solo uno: quel David Cameron cui una sola persona al mondo aveva giurato vendetta per la pubblicazione della conclusione preliminare della Commissione d’inchiesta sul caso Litvinenko. Chi è, a vostro parere? 

Una cosa è certa: tutto torna. Le banche traballano e allora il marcio deve essere tutto a Panama e nei centri off-shore, almeno per l’opinione pubblica che si ubriaca attacca alla tv o guardando le locandine fuori dalle edicole, andando al lavoro. Contemporaneamente, nessuno di veramente importante ha pagato conseguenze, se non chi aveva dichiarato guerra al Cremlino. Quelle carte sono spazzatura, inutili. Ma se chi le maneggia sa a chi darle, quando darle e come darle, sono oro. La realtà non è mai come appare.