Quale differenza passa fra il sei (per mille) del prelievo forzoso dai conti correnti degli italiani deciso dal governo Amato durante la crisi valutaria del 1992 e il sei (per cento) di rendimento promesso dal fondo Atlante a banche, fondazioni e assicurazioni in cambio di sottoscrizioni quasi forzose al piano salvabanche deciso dal Governo? Non molta: anzi l’ingerenza dello Stato fiscale è probabilmente più grave e indebita oggi di quando – letteralmente nottetempo – il Tesoro di allora si fece consegnare una quota dei risparmi privati dei cittadini. Fondi che erano custoditi in moneta nazionale in banche ancora in parte pubbliche: non era una giustificazione, ma il lungo processo di integrazione dell’Unione economico-monetaria doveva ancora quasi iniziare. La commistione fra finanza pubblica e privata, fra vigilanza finanziaria e politica creditizia era ancora reale: i muri di separazione netta fra i territori dello Stato (ridimensionati a regolatore) e quelli del mercato (estesi a contenere l’intera economia) non ancora eretti.



Ventiquattro anni dopo lo Stato italiano non aggredisce più il passivo dei bilanci bancari, ma l’attivo. Lo fa attraverso una procedura contorta, per sfuggire all’osservazione della Ue: con la “promozione” di vertici a Palazzo Chigi e al Tesoro e l’endorsement al lancio di un hedge fund da parte della Sgr della Fondazione Cariplo, offerta “obbligatoriamente” a un quindicina di banche, a 25 fondazioni, a un manipolo di compagnie d’assicurazione nazionali. Non si fa più consegnare una quota dei depositi, ma reintroduce una sorta di vincolo di portafoglio: analogo a quello che negli anni ’70 imponeva alle banche di sottoscrivere titoli del debito pubblico. Oggi le maggiori banche, fondazioni e assicurazioni nazionali “devono” invece comprare quote di un fondo che promette alti rendimenti perché opererà nel terreno dell’alto rischio: le sofferenze bancarie cartolarizzate delle stesse banche sottoscrittrici del fondo e spesso anche le loro azioni, quelle delle banche in difficoltà talmente seria che il mercato non intende sostenere nelle ricapitalizzazioni.



Esattamente come all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso il governo fiscale non aveva nessun titolo per per spingersi fino a imporre una “gabella a sopresa” ai correntisti bancari, oggi allo stesso governo italiano sarebbe rigorosamente vietato ingerirsi nell’asset allocation di banche e assicurazioni private e quotate in Borsa (decidono gli azionisti e i manager da loro designati) o delle Fondazioni (decidono gli organi indicati daglik stakeholder). Invece l’esecutivo Renzi obbliga banche, assicurazioni e fondazioni a investire ad alto rischio, con reddito aleatorio: scarica su azionisti e clienti di istituzioni finanziarie e sul welfare sussidiario dei territori il costo -discutibile nell’entità – di un presunto interesse pubblico, se non addirittura di un reale interesse personale (soluzione degli affaire Etruria e Mps e ri-statalizzazione virtuale dei grandi gruppi bancari).



Diversamente dal 1992 – quando la manovra del 6 per mille riempì pagine e pagine di giornale (a cominciare dalle prime) – il caso Atlante occupa spazi limitati, pagine interne, a sinistra. E se un sito web – è accaduto martedì – pubblica il pdf del prospetto del fondo Atlante (che profetizza nero su bianco l’apocalisse per le banche italiane) viene subito messo manganellato dalla Consob.

La democrazia italiana è “a bassa intensità” da almeno quattro anni. Ma all’inizio del terzo anno dell’era Renzi (terzo premier non eletto di fila), banche e media fanno a gara nel renderla sempre meno presentabile. Dal 28 ottobre 1922 al 24 gennaio 1933 – data di costituzione dell’Iri e di cementificazione del fascismo anche come regime economico-bancario – passarono undici anni. Ma allora non c’era internet.