Meritoriamente, Il Sole 24 Ore ha messo in prima pagina una notizia che giustifica (anche se il quotidiano della Confindustria sceglie lecitamente la linea asettica e non glieli attribuisce) due aggettivi: clamorosa e scandalosa. Riassumiamola a parole nostre: la più grande banca tedesca, la Deutsche Bank, gestita malissimo da molti anni da un gruppo di manager irresponsabili, ha emesso una montagna di titoli derivati, cioè investimenti tossici, pari alla cifra astronomico-demenziale di 75 mila miliardi di euro. Avete letto bene: titoli artificiali (cioè privi di un ancoraggio diretto con attività economiche reali) pari a venti volte il Prodotto interno lordo della stessa Germania. 



Di questa montagna di cartaccia, che prima o poi si sgonfierà come una bolla con effetti temibilissimi per tutta l’Europa, una minima parte, 32 miliardi, nell’ultimo bilancio, sono già presentati come “ad alto rischio”. Stiamo parlando di briciole rispetto alla portata del problema reale, eppure una cifra del genere sarebbe sufficiente a risolvere il problema di tutte le sofferenze bancarie del sistema creditizio italiano. Ebbene, secondo le regole sul trattamento contabile e patrimoniale di questa spinosa materia che il “Comitato di Basilea”, cioè il massimo organo regolatorio internazionale in materia creditizia, stava per imporre a tutti i Paesi dal gennaio 2018, la Deutsche Bank sarebbe sostanzialmente fallita: la principale di queste nuove regole avrebbe infatti imposto alle banche di coprire completamente con patrimonio proprio il valore dei derivati in bilancio. 



Quando la Deutsche Bank ha voluto correre ai ripari, e ha lanciato la sua offensiva lobbistica sul governo tedesco, ha subito ottenuto l’effetto voluto. Berlino ha parlato con Basilea e, come toccato da una bacchetta magica, il Comitato ha revocato le sue decisioni. Nel 2018 non cambierà nulla, e le banche tedesche, prima fra tutte la Deutsche ma anche numerose “consorelle” che stanno altrettanto nei guai, potranno continuare a far finta di niente.

È clamoroso o no? Mentre all’Italia l’Europa impediva di fare una “bad bank” che con gli stessi soldi avrebbe sistemato tutte le banche del Paese rilevandone le sofferenze irrecuperabili, permetteva simili sconci alla Germania. È scandaloso o no? E come meravigliarsi poi se i leghisti e grillini in Italia o i Farage in Gran Bretagna e le Le Pen in Francia trovano proseliti scagliando anatemi contro questa pagliacciata di Unione europea?



Il particolare grottesco è che in questi stessi giorni convulsi, il nostro Paese sta sforzandosi di presentare ai mercati come se fosse una grande trovata il Fondo Atlante. Diciamo subito che questo fondino rappresenta un piccolo, umile ma decoroso aiuto al sistema creditizio nazionale che governo e Bankitalia hanno ottenuto di far costituire da un gruppo di grandi istituzioni finanziarie, prima fra tutte l’unica grande banca italiana veramente sana, cioè Intesa. Un aiuto, quindi: e ben venga. Piccolo piccolo, però.

I numeri lo dimostrano: le banche italiane hanno sofferenze lorde (cioè crediti di cui pensano di non poter più incassare il rimborso) per 200 miliardi. Quelle nette, cioè la parte che non è già stata spesata negli accantonamenti per future perdite fatti nei bilanci delle banche che le detengono, è la metà circa: diciamo insomma 100 miliardi. Ebbene: secondo il governo, che lo ha dimostrato con il suo decreto di “risoluzione” delle quattro banche fallite (Etruria, CariFerrara, CariChieti e Banca Marche) il valore di mercato di queste sofferenze è assai modesto, cioè il 17,5% del loro ammontare teorico. Significa che su 100 miliardi di sofferenze nette le garanzie a copertura, se si va a realizzarle sul mercato, fruttano probabilmente solo 17,5 miliardi. Ciò implica l’esistenza di perdite inespresse nei bilanci delle banche di 82,5 miliardi. Roba da far saltare in aria tutto il mercato italiano.

Allora cosa vuol fare il Fondo Atlante, con la micragnosa partecipazione (dovrebbe essere di 600 milioni) della Cassa depositi e prestiti? Vuol fare l’unica cosa che le autorità europee – totalmente prone agli interessi loschi della Germania – ci permettono di fare. Cioè un piccolo intervento privato. Un gruppo di privati più la Cassa tirano fuori 6 miliardi, li mettono in un fondo, con questi soldi il fondo rileva sofferenze pagandole il 30% e spera, così, che i fondi internazionali specializzati in questo lavoro ne rilevino altre allo stesso prezzo. Sarà… 

Contemporaneamente il governo si prepara a riscrivere le regole, oggi farraginose e inefficienti (e quindi fa bene a riscriverle!), cui le banche devono sottostare per realizzare le garanzie loro prestate dai debitori a fronte dei crediti non rimborsati. In particolare sul fronte immobiliare, si dovrebbero dimezzare i tempi biblici (in media 4 anni) oggi occorrenti per poter vendere una casa ipotecata e confiscata. La cosa, però, con tutta evidenza, non sarà per niente risolutiva, almeno sull’immediato, perché il mercato immobiliare è ancora fermo, oppresso da una valanga di immobili in vendita che non incontrano compratori. Però, certo: Atlante aiuta. Ma – va ripetuto – è un aiutino. Un gattino presentato – nello “storytelling” istituzionale – come se fosse un leone.

I leoni veri sono quelli tedeschi che in questi stessi giorni hanno fatto sentire ben altri ruggiti. Sarebbe probabilmente ingeneroso criticare il governo, la Banca d’Italia e le banche private che hanno accrocchiato questo aiutino: più di così è chiaro che l’Italia non ha potuto o saputo ottenere. Accontentiamoci. Ma raccontiamola, la verità, al mercato e agli elettori: Atlante va bene, ma è un modesto sollievo, non la soluzione. Chi doveva capire l’ha capito: pochi, solo gli addetti ai lavori. Gli altri rischiano di credere che sia risolto il problema: e questo non è trasparente, né democratico.