Com’era ampiamente preventivabile, nulla di fatto. La maratona negoziale di Doha tra produttori di petrolio Opec e non-Opec non è servita a nulla, l’accordo per congelare la produzione di greggio non è stato raggiunto. E se in gran parte era stata proprio l’aspettativa di un’intesa a sostenere la ripresa del Brent, risalito fino a sfiorare i 45 dollari al barile la settimana scorsa, dopo essere crollato in gennaio sotto 30 dollari (ai minimi da 13 anni), gli speculatori avevano già fiutato l’aria e nei giorni scorsi si erano già posizionati sul mercato delle opzioni in modo da lucrare sui prevedibili ribassi. 



Due le criticità: primo, la bozza che ha fatto da canovaccio alle discussioni prevedeva una stabilizzazione dell’output sui livelli di gennaio, fino a ottobre. Ovvero, acqua fresca a fronte della saturazione monstre del mercato. Secondo, l’assenza dal tavolo negoziale di uno dei principali players del momento, ovvero l’Iran post-sanzioni. Ed è stato infatti proprio il nodo Iran a far naufragare le trattative, con l’Arabia Saudita che si è messa di traverso: nessun freno alla produzione se Teheran non avesse fatto altrettanto. Ma non solo, come già detto, gli iraniani a Doha non sono nemmeno andati, dopo aver chiarito senza possibilità di equivoci che non avrebbero collaborato, bensì hanno lanciato segnali inequivocabili nel verso opposto. 



Se infatti il ministro iraniano dell’Energia, Bijan Zanganeh, aveva addirittura definito «ridicola» la pretesa di convincerlo, sono i numeri a parlare chiaramente: stando a dati Bloomberg della scorsa settimana, tankers con a bordo 28,8 milioni di barili di greggio, più di 2 milioni al giorno, hanno lasciato i porti del Golfo Persico nei primi 14 giorni del mese di aprile. A marzo, quel dato era a 1,45 miloni di barili al giorno. In parole povere, le spedizioni petrolifere iraniane sono salite di oltre 600mila barili al giorno questo mese, di fatto ponendo una pressione quasi insostenibile non solo sulla saturazione presente sul mercato, ma anche sulle reali potenzialità negoziali di Doha. Mettendo questi numeri in prospettiva, 600mila barili sono esattamente il calo patito giornalmente dal comparto shale statunitense dal picco dello scorso anno, il tutto ovviamente a causa del crollo dei prezzi e, con esso, la chiusura forzata e in modalità palla di neve degli impianti estrattivi. 



E dove sta andando quel petrolio iraniano? Sempre stando ai dati di Bloomberg, la gran parte di quei milioni di barili di petrolio appena estratto sta andando verso la Cina, la quale ha fatto il pieno per tutto il mese di aprile in ossequio alla politica di riempimento delle sue riserve strategiche, mentre sono ripartiti anche i flussi verso il Giappone, dopo l’alt quasi totale registrato nel mese di marzo. E l’Iran sta beneficiando anche di alcuni problemi all’interno dei membri Opec, se è vero che Iraq e Nigeria insieme hanno patito un calo combinato di 90mila barili al giorno, stando agli ultimi dati della International Energy Agency. 

E cosa ci dice questo? Semplice, che per quanto a Doha sia andato in scena l’ennesimo scontro proxy tra Iran e Arabia Saudita, la realtà è che il mitologico ribilanciamento delle dinamiche di domanda e offerta a livello globale dovrà per forza passare dai membri non-Opec, ovvero dallo shale statunitense, stante i dati di produzione da record della Russia e la non volontà politica di Putin di cedere a pressioni internazionali proprio in questo momento. Ma ciò che è uscito, sottotraccia, dal vertice fallito di Doha è anche la lista di chi pagherà potenzialmente il prezzo maggiore all’attuale impasse

In primis, la Turchia, Paese non produttore e anzi totalmente dipendente dall’import a livello energetico ma attore geopoliitco di prima grandezza in questo momento, sia in Siria che nella gestione della questione migranti. La Turchia oggi è energeticamente debole e la sua debolezza è stata testimoniata da un articolo apparso su Oilprice, dal quale si evince che le sanzioni di Mosca hanno portato molti problemi ad Ankara, «ma ancor maggiori difficoltà la Turchia le vivrà per il buon esito dell’operazione militare russa in Siria, la quale ha distrutto tutte le prospettive del settore energetico turco». Dopo il conflitto con la Russia, la situazione dell’economia turca è diventata poco invidiabile. Dal 2002 la Turchia dipende fortemente dal gas e dal petrolio russo e, allo stesso tempo, Ankara è un po’ preoccupata per il fatto che le sue relazioni nel settore energetico con gli altri Paesi siano poco sviluppate. Nella speranza di ridurre la sua dipendenza energetica dalla Russia, infatti, la Turchia aveva firmato un accordo sulle forniture di gas dal Qatar, peccato che il gasdotto tra i due Paesi sarebbe dovuto passare attraverso la Siria, l’Iraq e il territorio curdo. E con Assad ancora in sella e l’Isis, su cui si era puntato, in ritirata, le speranze turche di un cambiamento degli equilibri sono a zero. 

Guarda caso, a gennaio di quest’anno Ankara ha importato per la prima volta gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti, per l’esattezza 83 milioni di metri cubi, circa il 7,15% del consumo nazionale totale. Ma lo shopping è proseguito anche in Qatar (437 milioni di metri cubi), in Algeria (468 milioni) e in Nigeria (171 milioni): peccato che Ankara dipenda, per il proprio gas, per il 60% dalla Russia e per il resto da Iran e Azerbaijan. Hanno fatto male i calcoli. Insomma, gli equilibri sono in modalità di rimescolamento, ma sembra emergere una certezza: saranno ancora gas e petrolio a guidare le mosse dei protagonisti. 

Tanto più che nessuno crede al raggiungimento del mitologico bottom e alla sostenibilità macro del rally che si è sostanziato il mese scorso, frutto unicamente di ricoperture forzate di posizioni short grazie a continue speculazioni e rumors sul mercato. Tanto più dopo quanto emerso il 23 marzo, giorno in cui la produzione di petrolio russa ha sfondato un nuovo record post-sovietico, arrivando a 10,92 milioni di barili. Insomma, mentre si parla di congelamento della produzione in sede Opec, due principali esportatori al mondo, Arabia Saudita e Russia, hanno già l’output ai massimi. E la Russia non intende fermarsi, visto che la Reuters ha reso noto che «Mosca intende esportare verso l’Europa nel mese di aprile il quantitativo massimi di petrolio dal 2013, questo nonostante l’accordo globale per un congelamento della produzione per far alzare il prezzo del barile». 

E come ha risposto il ministro dell’Energia russo, Alexander Novak, a chi gli chiedeva conto della notizia? «La discussione riguarda soltanto il congelamento della produzione. E non l’export». Alla faccia della pantomima di Doha. Questo significa che nel mese in corso, oltre al maxi-carico iraniano verso l’Asia, ci saranno sul mercato altri 2,4 milioni di tonnellate di petrolio extra, destinate a far aumentare una saturazione che è già di 3 milioni di barili al giorno di sovra-fornitura. E se nonostante l’ammorbidimento del bando sull’export petrolifero di inizio anno le esportazioni statunitensi sono calate del 5% (325mila barili contro i 342mila dei primi tre mesi del 2015), i guai peggiori per gli Usa potrebbero arrivare dal grafico di Bloomberg (il primo a fondo pagina), il quale ci mostra come la scorsa settimana si siano registrati 5 default corporate negli Usa, portando il totale da inizio anno a 31, il livello più alto dal 2009, quando furono 42 le aziende ad andare a zampe all’aria. Tra le ultime cinque, spicca la Peabody Energy Corporation e questo potrebbe essere solo l’inizio, visto che ad aprile nel settore energetico Usa si svolge la stagione delle redeterminations con le banche, le quali potrebbero far evaporare la liquidità del comparto, volendo tagliare di netto la loro esposizione. 

Detto fatto, le ditte non sarebbero più in grado di rifinanziare il debito con emissioni equity e un’ondata di default potrebbe sommergere il comparto. E il secondo grafico ci mostra la delicatezza della situazione, ovvero la nuova strategia che i ribassisti stanno utilizzando per shortare il petrolio attraverso posizioni short sui titoli azionari della banche regionali più esposte e presenti nel Kbw Regional Banking Index. Le quali, in media, hanno visto salire le scommesse ribassiste del 35% da inizio, ma nel caso delle texane Cullen/Frost Bankers Inc. e Prosperity Bancshares Inc. registrano addirittura un +60%. 

E, in effetti, la cronaca sembra confermare i timori. È della scorsa settimana la notizia che la Chesapeake Energy è riuscita a mantenere la sua base di credito nei confronti di un consorzio bancario, 4 miliardi di dollari, legato a un accordo di revolving credit facility a scadenza 2019. Ma come hanno fatto a ottenere quel risultato, visto il prezzo del petrolio che non si muove dalla sua banda di oscillazione 38-42 dollari? Semplice, in cambio del mantenimento della linea di credito esistente, Chesapeake ha accettato di postare come collaterale ulteriore il 90% dei suoi giacimenti di gas, il patrimonio immobiliare e i contratti derivati. Insomma, si è svenduta alle banche. Le quali, in effetti, stanno diventando sempre più attente e il perché ce lo l’ultima tabella, dalla quale desumiamo che gli istituti Usa esposti verso il settore energetico hanno un vaghissimo problemino di prestiti non finanziati e coperti, qualcosa come 147 miliardi di dollari di perdite potenziali. E in cima alla lista, ecco le big: Citi, Bank of America, Wells Fargo e JP Morgan. Senza contare gli istituti più piccoli e le banche internazionali, altri soggetti che siedono placidamente su prestiti a rischio per miliardi. 

Non a caso, alcune banche durante le revisioni delle linee di credito che stanno avendo luogo in questi giorni, hanno negoziato con le aziende del comparto delle clausola cosiddette anti-cash-hoarding, ovvero ogni extra-cash deve essere utilizzato dalle compagnie per ripagare il debito sulla linea di credito ottenuta. Non guardate a Iran e Arabia se volete capire le dinamiche petrolifere, né tantomeno alla Russia: occhi puntati su produzione e default negli Usa e sulle mosse geopolitiche della Turchia.