Critiche sempre più esplicite a Mario Draghi, proposte punitive come il tetto ai titoli di stato nei bilanci delle banche, manovre per mettere in difficoltà le banche italiane alle quali le difficoltà (soprattutto domestiche) non mancano certo, rifiuto reiterato di introdurre gli eurobond, anche per tamponare alla fonte l’ondata migratoria: difficile negare che i tedeschi abbiano preso di mira l’Italia. Che cosa vogliono? È il solito pregiudizio da Uebermenschen? Può darsi, ma forse la spiegazione è più politica che antropologica; e va cercata nell’obiettivo che la classe dirigente tutta, non solo il governo di Berlino, si è data di fronte alle due insidie che minacciano l’Unione europea: il Brexit e la continua instabilità dei paesi mediterranei. E l’obiettivo è dar vita alla Kerneuropa, l’Europa del nocciolo duro, un nucleo di paesi i quali portano avanti l’integrazione politica non solo monetaria.



Non è una novità, l’idea risale al 1994 e nasce dentro la Cdu da due dirigenti di primo piano come Wolfgang Schaeuble, che allora sembrava destinato a sostituire Helmut Kohl, e Karl Lammers. In quel nocciolo, non dimentichiamolo, non c’era l’Italia. Ma facciamo un passo indietro cercando di ricostruire i passaggi che portano a questa conclusione.



Il primo riguarda la Bce. I tedeschi sono contrari a tassi di interesse negativi e ad acquisti di titoli in modo tanto massiccio e per così lungo tempo. Draghi tiene duro, ma la politica monetaria sembra essere arrivata al capolinea, sarà difficile continuare oltre il prossimo marzo. Se, poi, non riesce a riportare la dinamica dei prezzi verso un aumento del 2%, il presidente italiano dovrà alzare bandiera bianca. Del resto, non si sono visti nemmeno grandi effetti sulla crescita. Non dipende da Draghi, ma dalla struttura dell’economia europea: con un mercato dei capitali bancocentrico e un mercato del lavoro rigido, la risposta all’aumento della liquidità non è la stessa che si è avuta in America. Questo conferma che l’area euro deve portare fino in fondo le riforme strutturali, ma è compito dei governi non della banca centrale.



La grande iniezione di moneta ha offerto ossigeno ai paesi del Sud Europa, però non ha risolto i loro problemi. La Grecia ha fatto passi avanti, eppure resta sempre sull’orlo del collasso. Adesso s’aggiunge la Spagna sulla quale incombe lo spettro della instabilità politica. Quanto all’Italia si diffonde nelle cancellerie, come si suol dire, la sensazione che Renzi stia esaurendo la spinta propulsiva. E se Renzi va chi resta? Il M5S? Non scherziamo, l’imbarazzante gita a Londra di Di Maio la dice lunga sulla affidabilità dei grillini. Nemmeno il nazionalista Nigel Farage, al quale ha fatto la corte, ha voluto ricevere il presunto leaderino del movimento. Intanto a Roma l’emissario dei democratici americani, John Podesta, annusa l’aria per riferire a Hillary Clinton: conoscendola, si può dire che se sarà presidente si preoccuperà parecchio di come vanno le cose in Italia, alleato chiave nel gran caos del Mediterraneo.

In questo scenario, i tedeschi prendono l’iniziativa. Pressata da un’opinione pubblica un po’ euroscettica e molto europreoccupata, Angela Merkel cerca di reagire accogliendo le ansie e le paure degli elettori. La Kerneuropa da questo punto di vista è un’idea che ben rispecchia il Volkergeist. Ma la condizione è che resti fuori anche l’Italia. I tedeschi ci hanno già provato negli anni 90, ma glielo hanno impedito i francesi, non per generosità, bensì per un preciso calcolo dei propri interessi nazionali che nel fondo non sono affatto cambiati.

Il governo italiano può sempre alzare la bandiera del Paese fondatore, ma c’è da dubitare che basti. Diventa così attuale la questione posta da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi: l’Italia vuole stare nel primo cerchio della futura Europa? E, se lo vuole per scelta di fondo non solo per orgoglio nazionale, è pronta? La riposta è no. Allora cosa deve fare? Ridurre il debito e aumentare la crescita. Come a dire, la quadratura del cerchio. L’equazione è difficile e piena di incognite, però esiste una formula efficace anche se non esattamente magica: abbassare le imposte e contemporaneamente anche le spese correnti.

Renzi è disposto ad alleggerire le tasse, ma non ha spazi di manovra nel bilancio pubblico perché non vuole ridurre le spese. La spiegazione formale è che un taglio alla spesa pubblica ha un effetto recessivo. È vero, ma sarebbe più che compensato dalla riduzione della pressione fiscale. Ormai è certo che una lira in meno al fisco ha un impatto sui redditi e sulla domanda superiore a una lira in più spesa dallo Stato. Con un bilanciamento oculato, l’impatto sul deficit pubblico sarebbe limitato, compensato già dopo un anno dalla spinta alla crescita del prodotto lordo.

Ma allora se l’acceleratore fiscale funziona, perché Renzi continua a rifiutarlo? Per due ragioni entrambe fondate. Perché teme che l’incertezza e la sfiducia spingano la gente a mettere sotto il materasso il tesoretto fiscale e a non spenderlo, e perché a lui più dell’acceleratore fiscale interessa quello elettorale. I tagli alla spesa scatenano l’opposizione interna, guidata dagli enti locali, i mancati tagli alle tasse generano un generale scontento che può avere effetto politico solo a più lungo termine. E a Renzi interessa guadagnare punti a breve termine.

Se avrà superato indenne le prossime elezioni municipali e il referendum costituzionale di ottobre, andrà alle elezioni politiche l’anno prossimo con buona possibilità di vincerle. Solo dopo potrà pensare a scelte politiche di ampio respiro. Del resto, la lezione del Jobs Act gli ha insegnato che in Italia le riforme creano più nemici che amici. Dunque, Renzi ha bisogno di un anno, sperando che nel frattempo la situazione non peggiori. Ma fra un anno vota anche la Germania e la Merkel deve offrire molto prima ai suoi elettori una via d’uscita dall’attuale palude europea. Sarà l’orologio della politica, questa volta, a segnare anche il tempo dell’economia.